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giovedì 28 febbraio 2008

Ciò che è gradito al Signore è che l'uomo sia

Il Vangelo (Gv 9,1-41) che la Chiesa ci propone per questa quarta domenica di Quaresima si presenta immediatamente, anche solo ad un primo colpo d’occhio, davvero imponente: esso percorre infatti ben 41 versetti! Ma non è solo, o non è tanto, per la sua mole che questo brano è così pregnante, quanto piuttosto per la sua densità.
È su di esso, perciò, che vorrei puntare l’attenzione, non senza però, tentare di introdurlo con le altre due letture, che ne danno in qualche modo una chiave interpretativa. Mi riferisco in particolare all’affermazione di 1Sam 16,7 «l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» e a quella di Ef 5,10 «Cercate di capire ciò che è gradito al Signore».
Dico questo perché in effetti mi pare che i molti temi trattati nel racconto evangelico in fin dei conti confluiscano nella logica dello svelamento dei cuori e di ciò che è gradito al Signore.
Inizio col dire qualcosa sullo svelamento dei cuori…
Quanto a questo primo aspetto mi pare interessante seguire il racconto evangelico soprattutto nella presentazione dei tre personaggi/gruppi principali che lo compongono: il cieco, i farisei, Gesù.
L’immediata connotazione che ci viene data del cieco è quella peccaminosa. Sono i discepoli stessi a presentare questa antica credenza in un legame tra male fisico e colpa: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?».
Ma Gesù rifiuta immediatamente questa interpretazione operando un vero e proprio ribaltamento della considerazione di colui che ha davanti: lo toglie infatti dallo scontato riferimento al peccato e lo mette invece direttamente in relazione a Dio: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio». Tant’è che la sua connotazione di cieco cambia: «Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva».
Nonostante questo però il seguito del brano sembra fare nuovamente un passo indietro: ci ripresenta infatti ancora l’identità di quest’uomo soggiogata dai soliti pregiudizi culturali: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina, […] è uno che gli assomiglia». Finché arriva la svolta decisiva: lui stesso si riconosce e pone una parola di svelamento: «Sono io!».
Ma nemmeno questo sembra bastare: «i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista». Tanto che inizia tutto un processo di rimozione dell’evidenza, portato avanti con il discredito sistematico dell’interlocutore e culminante nell’affermazione (che è una regressione alla I cosa detta a riguardo del cieco): «Sei nato tutto nei peccati».
Questo ritorno all’indietro nel riconoscimento dell’identità del “nostro cieco” però ormai non è più convincente. Mentre all’inizio era assodata per tutti, e per il cieco stesso, la sua considerazione come di uno “punito a causa del peccato, suo o dei suoi genitori”, ora, dopo la novità inseritasi nell’incontro con Gesù, egli non è più lo stesso: nessuno più potrà convincerlo del contrario; lui infatti ha sperimentato sulla sua pelle che quell’«uomo che si chiama Gesù» gli ha cambiato la vita. Non serve la minaccia dei farisei, che pure riescono a intimorirgli i genitori; non basta l’incertezza di coloro che lo ricordavano mentre elemosinava; non ottiene risultati l’espulsione dalla sinagoga («lo cacciarono fuori»): egli ormai è libero, di una libertà diversa, fondata sull’incontro personale, su una promessa creduta, sulla carne trasformata… su un ordine degli affetti nuovo, che va dall’apparenza al cuore: «Credo, Signore!».
È la libertà a cui invece non riescono ad aprirsi i farisei: «Siamo ciechi anche noi?». Tutto il percorso di svelamento dei loro cuori che il brano ci fa percorrere infatti è come segnato da una spada di Damocle da cui essi non riescono a svincolarsi: «era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi». Ecco tutto il loro problema, la causa del loro irrigidirsi su posizioni insostenibili, che (come ogni volta che mancano argomentazioni convincenti) impongono con la violenza («lo cacciarono fuori»). Il loro schema religioso, politico, di salvaguardia del potere è messo in scacco dal gesto di Gesù, perché da un lato non potevano negare che Gesù non venisse da Dio: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?»; ma dall’altro neanche ammetterlo: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». E messi alle corde, nella scelta stringente tra il loro schema e l’evidente bontà di qualcosa che glielo fa scoppiare, scelgono lo schema: preferiscono la salvaguardia della regola al bene di un uomo; prediligono l’ordine costituito, l’universale, alla faccia del singolo… è questo il loro cuore, al di là dell’apparenza iper-osservante del loro stile di vita (cfr Mt 23,27: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all'esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume»): la conservazione dello status quo a scapito della gente, che è proprio il contrario del cuore di Gesù, che metterà in discussione lo status quo più status quo di tutti, che è la considerazione di Dio, (morendo) a favore degli uomini!
A proposito di Gesù… forse, fra tutti i disvelamenti, il suo è quello più intrigante. Lo si vede con chiarezza nell’evolversi delle parole del cieco, che ogni volta che è interrogato a suo proposito fa un passettino in avanti fino alla professione di fede finale in Gesù, Figlio dell’uomo. Scorrendo infatti le sue parole, vediamo come la partenza sia proprio legata ad un’immediatezza accessibile a chiunque: di Gesù infatti parla come di un uomo («L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista»). Ma poi c’è una prima progressione: «Allora dissero di nuovo al cieco: “Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?”. Egli rispose: “È un profeta!”». E poi di nuovo: «Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla».
Ma la cosa più interessante è che quest’uomo passa dal dire di Gesù che è un uomo, poi un profeta, poi un uomo di Dio e infine Figlio dell’uomo, proprio e solo perché lo ha esperito: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Questo non è un teologo, un sacerdote, un erudito… è uno che guarda ai fatti: «Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». È l’incontro che l’ha convinto, al di là di ogni possibile postuma dissuasione. Come la Samaritana di domenica scorsa: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?» (Gv 4,29).
Eccoli allora i cuori a cui guarda il Signore a scapito delle apparenze a cui guarda l’uomo: il cieco-peccatore-escluso capace di incontrare Dio in Gesù, che gli ridà Vita; i farisei-simbolo della religiosità (che sarebbe poi la mediazione universalmente riconosciuta per l’accesso al divino) cieca di fronte al Figlio dell’uomo, perché cieca su qualsiasi uomo (a cui preferisce la legge); e infine Gesù, nel cui cuore sta proprio l’altra cosa che cercavamo all’inizio: ciò che è gradito al Signore! E in Gesù… ciò che è gradito al Signore è che l’uomo sia. E questo viene prima di qualsiasi legge.

Colui che parla con te... è proprio lui!

io sono la luce del mondo!
difficile dire se questo brioso racconto della guarigione del cieco nato sia stato, nelle prime comunità cristiane, una delle ispirazioni determinanti per capire il sacramento del battesimo e disegnarne il rito, o sia stata la comprensione sempre più profonda del mistero battesimale che ha fatto riscoprire la forza educativa di questo “segno” di Gesù, come un eccezionale percorso paradigmatico di scoperta e maturazione della fede in lui! Il resoconto di questa vicenda, come è adesso nel vangelo, è comunque una delle descrizioni più appassionate di come Gesù compie l’ “opera” di colui che lo ha mandato per salvare il mondo ‑ come “luce” del mondo! Dunque, per l’uomo sembrerebbe una questione di vista, difettosa dalla nascita, per cui non riesce a vedere bene le cose, né se stesso, né Dio. Ma di fatto, l’intervento di Gesù è descritto come una “creazione nuova”, dai simboli forti e sorprendenti. La vista è ricreata dalla polvere della terra, impastata come fango con lo sputo (l’ “alito” umido della bocca di Gesù). Con questo sembra imbrattare e oscurare ancor più gli occhi. Ma il cieco si fida e va alla fonte dove Gesù l’aveva inviato, e di fatto, una volta lavati gli occhi, “ tornò che ci vedeva”! Se fosse stata solo una questione di vista, il miracolo è finito qui – un generoso gesto di misericordia.
... ma c’è una premessa: il primato dell’amore sul peccato.
una premessa discriminante, che va chiarita fin dall’inizio, per non trascinare un’ambiguità di fondo che avvelena poi tutta la vita ( e la nostra teologia!). Alla domanda antica quanto l’uomo: chi ha peccato? Gesù risponde decisamente: la causa del male radicale dell’uomo (la cecità dalla nascita!) non è colpa dell’uomo, né come singolo, né come famiglia umana... Anche se la voglia di accusare (è colpa tua!) resta invincibilmente radicata nel cuore dell’uomo, al punto che ha poi bisogno di un capro espiatorio e tutta la storia delle religioni è insanguinata dai sacrifici delle vittime su cui si è tragicamente proiettato questo inspiegabile male che ci soffoca la vita, prima ancora che ne siamo colpevoli. Tanto più che l’accusa viene contemporaneamente tanto introiettata dentro di noi, soprattutto nei più deboli (è colpa mia!) – fino da uccidere in loro il gusto della vita e la possibilità di ritrovare speranza (che è la luce della vita!). Gesù non da spiegazioni ulteriori, ma annuncia e rende vera una notizia lieta (un vangelo): le situazioni più dolorose ed oppressive nelle quali l’uomo si trova invischiato, qualunque ne sia la causa, non sono mai un castigo di Dio, sono piuttosto il luogo della manifestazione delle “opere di Dio” ‑ prima c’è sempre l’amore - la salvezza dell’uomo! ... Di qui comincia il cammino di speranza di chi accoglie la luce.
la costruzione della nuova identità
Infatti vedere la luce è solo l’inizio – perché da qui in avanti “credere” diventa soprattutto una questione di cuore, al quale la Parola di Gesù, che ha guarito la vista, apre orizzonti impensati – addirittura di rovesciamento e ricostruzione totale della “identità umana”, trasformandola progressivamente in identità “cristiana”, propria del discepolo di Gesù. La Parola, infatti, manifesta al discepolo verità nuove, che i sapienti e gli intelligenti di questo mondo non capiscono o ritengono follia o stoltezza: le beatitudini, il perdono, anzi l’amore dei nemici, la misericordia come essenza di Dio e chiave per capirlo... e infine seguire Cristo nel portare il male del mondo fino a consegnare la propria vita per testimoniare che solo l’amore è efficace a costruire di qua l’al di là!
Ecco i tratti vivacissimo di questo cammino esemplare di maturazione della fede:
1. il discepolo neofita non sembra più lui. L’identità è un processo complesso, un intreccio di relazioni che costituiscono l’io, intessendo la sua autobiografia vivente. Ma i nuovi occhi, spalmati dal contatto così “terrestre” con l’umanità di Gesù, riplasmati dalla sua Parola (vai, lavati!) vedono irrompere nella nuova consapevolezza di sé orizzonti, criteri, schieramenti completamente nuovi e disomogenei. Attorno a lui, i più vicini, stupiti, se ne accorgono subito, proprio a lui, pongono il dubbio sulla sua identità. E lui, che davvero è cambiato, ribadisce con una decisione che non vuole dare spazio a ripensamenti: sono proprio io! Ma cosa ti è successo? Come mai ci vedi?... Nasce la sua prima vera testimonianza “cristiana”: è stato quell’uomo, chiamato Gesù! Infatti, Gesù, riconosciuto Signore, l’ha fatto signore... e re, cioè libero dalla pressione sviante della gente, ma dipendente solo dalla Parola, che l’ha unificato e identificato!
2. l’impatto incombente con l’ordine costituito! un prodigio così impressionante come risanare dalla cecità, vuol dire trasformare un uomo. Non può non avere un impatto sociale eversivo. I maestri e detentori del potere, colti quanto interessati, si dividono sull’interpretazione del fatto, sbalorditi dall’evento, ma ancor più preoccupati dalla violazione della legge del sabato... I Farisei di ogni tempo sanno la teologia e la morale ma non sono più appassionati alla vita, puri esecutori d’ogni piccola regola che impongo indiscriminatamente, perché non si commuovono mai. Scrutano i codici e non vedono più la faccia della gente! Il credente vede la differenza con l’esperienza di luce, di vita e di libertà che ha ricevuto. La provocazione gli fa fare un passo importante: capisce che chi gli ha aperto questi orizzonti non può che essere un profeta, qualunque cosa si dica di lui!
3. il distacco dalla tribù del sangue. Ma nessuno è profeta in patria sua. Vedere le cose dal punto di vista della Parola di Dio, vuol dire partecipare della sorte del profeta ... Chi ti era vicino fino a ieri, adesso ha paura. I vincoli di prossimità del sangue non tengono, se non sono convertiti in quelli della fede e della speranza. I ricatti del potere, il terrore di perderne la protezione e il consenso, genera distacchi, misconoscimenti e perfino tradimenti... La solitudine mette a dura prova la fede nella Parola... Ma bisogna insieme rimanere fedeli ed insieme aver compassione di questi poveri spaventati e smarriti.
4. la reazione immunitaria. Il problema dell’autorità non è il prodigio che un cieco adesso ci veda, che un ignorante gioisca della verità che lo rende uomo, che il deserto di solitudine del suo cuore fiorisca di speranza... Costoro si preoccupano soltanto se tutto è fatto secondo le loro tradizioni e sotto il loro controllo... Hanno una sapienza mortifera che si basa sul passato. Non vedono più i germogli che premono alla vita. Sanno già tutto. Il nuovo non è previsto, dunque non esiste – o comunque va soppresso. Il loro potere cresce solo sulla paralisi dell’amore e della compassione. E se vogliono mantenere questo monopolio del potere, hanno ragione, perché un briciolo di verità della più mite e semplice dialettica lo fa crollare: questo è strano, che voi non sapete da dov’è, ...ma se non fosse da Dio non avrebbe potuto far nulla! E lo espulsero fuori, anticipando in lui il sacrificio sacerdotale del suo maestro (Eb 13,12s). Infatti, rimasti senza argomenti efficaci, non rimane che tornare al primato del peccato sull’amore liberante, per mettere zitta la verità dei fatti (sei tutto concepito nel peccato, e tu insegni a noi?)
5. solitudine e compagnia del cristiano. Ormai senza famiglia, senza sinagoga, senza elemosina (perché ormai ci vede)... è un emarginato totale! Allora Gesù lo cerca e lo incontra: credi tu nel figlio dell’uomo? Non è un incontro “spirituale” autoprodotto dalla tensione interiore... Sono maturate le condizioni storiche, interiori ed esteriori, di uno sradicamento doloroso e violento da ogni acquiescenza alla logica pervasiva della competizione del sapere e del potere – e così avviene uno sbilanciamento totale, interiore ed esteriore, verso la Parola ascoltata e perseguita. Ma chi è Signore, perché io creda in lui? Gesù risponde: lo vedi! colui che parla con te, è lui stesso! Configurato a lui attraverso le tappe sconcertanti e quasi trascinato sulla strada stretta ... dietro la Parola che lo ha risanato – la Parola stessa si manifesta come “persona”, come amore, compagnia e accudimento ... sperimentato (lo vedi!). E gli avvenimenti e le Scritture non trasmettono più soltanto la Sua voce, ma lui stesso “fa” l’identità del cristiano (...colui che parla con te, è lui stesso!).

approfondimenti sul percorso...
“...per avvicinarsi al tema dell’esperienza di Gesù dobbiamo distinguere tra identificazione e identità. Molti cristiani si appagano dell’identificazione di Gesù: un uomo, figlio di Maria, che è vissuto a Nazaret, è morto su una croce sotto Ponzio Pilato, è risorto... e tutti gli altri dati che la tradizione ci ha tramandato per identificarlo. In questo modo sappiamo di cosa parliamo – ma non necessariamente conosciamo chi sia. L’identificazione di Gesù di Nazaret, che ci dà la possibilità di non confonderlo con nessun altro personaggio, non è la stessa cosa che la sua identità, che ci dà la possibilità di conoscerlo.
Per conoscere l’identità di una persona ci vuole amore, ci vuole fede, occorre che uno la scopra personalmente, si apra ad essa. È in questo incontro faccia a faccia, da persona a persona, da tu a tu, da amante ad amante, che l’altro viene conosciuto nella sua personalità e che il conosciuto trasforma il conoscente e il conoscitore il conosciuto. Questo è il mistero dell’identità della persona. La madre conosce l’identità del figlio, mentre i dati anagrafici servono solo per la sua identificazione.
Per conoscere l’identità di Gesù di Nazaret è necessario incontrare la sua persona. La storia ci descrive solo i personaggi. Ma non possiamo incontrare una persona nel passato. Del passato si può avere un ricordo, un’anamnesis, una credenza ‑ e una credenza fragile, certamente, perché fragili sono i suoi paradigmi storici. Possiamo credere negli avvenimenti di Betlemme o credere in altri fatti della vita di Gesù, ma non possiamo dire che abbiamo l’esperienza di Betlemme, dell’Incarnazione e della tomba vuota, perché non eravamo là e non abbiamo veduto. L’esperienza non è un ricordo, l’esperienza è un fatto che ci accade e ci trasforma, anche se può trovare il suo fondamento in una memoria attualizzata, nel qual caso è una memoria ritrasmessa dalle generazioni precedenti.
Se Cristo è solamente un personaggio storico, l’esperienza del cristiano si riduce all’esperienza esistenziale prodotta dal ricordo della sua vita, ritrasmessa mediante la memoria che di lui si è conservata. In questo caso gli esperti hanno la massima autorità e il cristianesimo si riduce ad una religione del Libro!
Ma per il cristiano, l’esperienza di Gesù è l’esperienza di Gesù Risorto, vale a dire del Cristo vivente, hic et nunc, oggi e sempre, per dirla con S. Paolo. Non è un’esperienza storica ma metastorica, personale e intrasferibile. Avviene nel tempo, ma non è storica, questo è ciò che rende tale esperienza così potente e allo stesso tempo così difficile da comunicare. È l’atto di fede che attualizza questa esperienza dell’ineffabile, che per i cristiani si realizza “in e attraverso Cristo”. Chi non ha avuto l’esperienza di essere risuscitato da Cristo ‑ anche se si definisce cristiano e si ritiene ortodosso (identificando doxa con dottrina) ‑ non potrà dire come i samaritani. “...non è più sulla tua parola che noi crediamo ...noi stessi abbiamo udito e sappiamo...” Non potrà capire l’incipit ‘sensuale’ della prima lettera di Giovanni, né la maggior parte dei testi delle Scritture – e anche della tradizione ‑ cristiane. Il Cristianesimo non è una religione del Libro, ma una religione della Parola – della Parola viva udita e colta nella sua forza trasformante, da coloro che hanno orecchie per udire...”
[R. Panikkar, L’esperienza di Dio, Queriniana 1998, p. 71]

Luca 11,14-23

In quel tempo, Gesù stava scacciando un demonio che era muto. Uscito il demonio, il muto cominciò a parlare e le folle rimasero meravigliate. Ma alcuni dissero: “È in nome di Beelzebul, capo dei demoni, che egli scaccia i demoni”. Altri poi, per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo. Egli, conoscendo i loro pensieri, disse: “Ogni regno diviso in se stesso va in rovina e una casa cade sull’altra. Ora, se anche satana è diviso in se stesso, come potrà stare in piedi il suo regno? Voi dite che io scaccio i demoni in nome di Beelzebul. Ma se io scaccio i demoni in nome di Beelzebul, i vostri discepoli in nome di chi li scacciano? Perciò essi stessi saranno i vostri giudici. Se invece io scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio. Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, tutti i suoi beni stanno al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via l’armatura nella quale confidava e ne distribuisce il bottino. Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde”.

Quando emettiamo un giudizio sull'altro, giudichiamo in realtà sempre e soltanto noi stessi, rivelando il nostro di cuore...

Accade nelle nostre comunità di non saper riconoscere il "dito di Dio" nel volto dell'altro perché siamo troppo intenti a succhiarci il nostro pollice... ma le "mammelle di Dio" sono un'altra cosa!

martedì 26 febbraio 2008

Matteo 18,21-35

In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: “Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?” E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette. A questo proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi! Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito. Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello”.

Appena uscito... lo prende alla gola e lo soffocava.
Non è facile dire grazie: all'Io è insopportabile di essere "debitore", di essere "figlio", di dovere ad un altro ciò che di meglio c'è in noi.

Il ragionamento è più o meno questo: Se tu mi avessi restituito i trenta grammi d'oro, io non avrei dovuto essere riconoscente di addirittura centosessantaquattro tonnellate d'oro, ma "solo" di centosessantatremilioninovecentonovantonovemilanovecentosettanta grammi...

Non esiste possibilità alcuna, di costruire qualunque cosa nella vita, senza la gratitudine. Il Vangelo stesso è la possibilità di accedervi.

La riconoscente gratitudine è luce dell'anima, pace del cuore, gioia infinita, anima della preghiera. È l'esultanza nello Spirito, è beatitudine anticipata... È il colore nella vita...

Certe vite tristi, virtuosamente tristi, che come zombie affamati girano nelle nostre comunità, nascono proprio dall'incapacità di dire-fare grazie.

Eppure "fare grazie" (eucaristia) è il cuore del cristianesimo, dell'annuncio evangelico. Il vangelo è bella notizia perché finalmente c'è qualcuno che ci rimette ogni debito! Dobbiamo solo accogliere questo dono... Non a caso è il cuore del Padre nostro: rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori... in attesa di scoprire che siamo in debito persino verso i debitori... Solo così se ne santifica il nome... Solo così si può essere beati, anche se si hanno le lacrime agli occhi...

Se vivessimo questa dimensione, la vita rifiorirebbe, le vocazioni riprenderebbero e una nuova primavera sboccerebbe nell'inverno delle nostre comunità e del nostro cuore inacidito... e, ogni allusione non è assolutamente casuale, smetteremmo di isolare, esiliare, accusare, condannare, senza possibilità di appello... semplicemente perché l'altro non è "fedele" come noi ci illudiamo di esserlo...

E scopriremmo una verità più grande delle nostre coerenze: che l'altro, proprio nella sua diversità, persino nel suo eventuale peccato, ci rende possibile un cammino esistenziale che ci conforma al Figlio. Che fa che il Padre sia finalmente mio Padre!

Ma l'Io trova insopportabile essere debitore, soprattutto verso il "nemico"...
Ma io vi dico grazie lo stesso!

venerdì 22 febbraio 2008

Il Signore è in mezzo a noi sì o no?

Le letture che la Chiesa ci propone in questa terza domenica di Quaresima, mi pare siano talmente ricche, da rendere impossibile un’indagine approfondita di tutto ciò che mettono in campo. Per questo mi limito a delineare quello che per me può essere un filo conduttore che le unisce e guida, e cioè: è soltanto facendo esperienza (e facendo poi memoria) del Signore che mi incontra nel più intimo di me (Gv 4,5-42), che Egli può essere tolto dal banco degli imputati (Es 17,3-7), dov’è guardato con sospetto come un lui qualunque, e diventare un Tu con cui Vivere la vita (Rm 5,1-2.5-8).
Cerco di spiegarmi…
E lo faccio a partire dall’esperienza del popolo di Israele nel deserto: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?». Ecco la domanda inquisitoria nei confronti di Dio, il ribaltamento delle posizioni in campo: da terra di prova per la fede dell’uomo, il deserto diventa luogo dove in discussione vi è Dio in persona.
Non è questa certo una domanda che noi possiamo permetterci di guardare con aria di sufficienza, o superiorità da benpensanti: quante volte infatti è salita in gola anche a noi? Soprattutto proprio in quei momenti in cui come si dice del popolo si «soffriva la sete per mancanza di acqua»?
Per ognuno certamente l’esperienza del deserto e della sete assume contorni e sfumature personalissime, l’acqua che manca è per ciascuno connotata in modo singolarissimo, ma – mantenendo il paragone – non si può negare che quello della mancanza di acqua sia proprio un tratto caratteristico di questa nostra vita umana, di tutti e di ciascuno dunque.
Ma non solo: comune a tutti e a ciascuno pare anche, almeno tendenzialmente, la reazione a questa carenza di acqua, di vita. Essa si connota infatti umanamente con l’inquisire Dio: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?». È lui il primo imputato del nostro male di vivere, dei nostri stenti, delle nostre infelicità e solitudini, delle nostre povertà e miserie… della nostra sete di Vita: Dov’era Dio?
Interessante a questo proposito è che la domanda «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?» è come urlata ad un cielo vuoto: non è rivolta a Mosè, né a nessun altro membro del popolo; e non è rivolta nemmeno a Dio stesso; Egli vi è infatti citato alla III persona…
Quanto è diverso questo modo di interrogare il cielo rispetto ad un’altra domanda che verrà urlata da una croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Essa è sempre la domanda di uno che ha sete (sete di vita), di uno che dispera, di uno che muore… eppure, anche nel grido dello strazio, è la domanda di uno che tiene aperto il dialogo con il Padre suo, dandogli comunque del Tu, interpellandolo in prima persona.
È proprio questa la novità cristica (di Cristo), la sua risposta all’umanissimo istinto di messa in discussione di Dio che l’uomo ha dentro di sé: o Dio lo incontri nel dramma della libertà storica di Gesù, o, se rimane un’impalcatura religiosa, un insieme di pratiche e devozioni, non ti disseta, non ti salva, non ti dà Vita.
E in questo senso è significativo che il liturgista abbia posto in connessione alla sete di Israele nel deserto, il dialogo che Gesù intrattiene con la Samaritana sull’acqua viva che zampilla per la vita eterna: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna».
Questo incontro tra la libertà storica di questo uomo – che possiede in sé la fonte della Vita – e questa donna – che invece ha in sé la fonte della sete – è così coinvolgente perché non rappresenta un esempio edificante, un modello stereotipo di un rivolgersi al Signore. No: esso è raccontato nel suo snodarsi, nel suo svolgersi reale; e in questo senso noi lettori siamo come catturati dentro alla scena. Ancora una volta abbiamo la possibilità di accedere al mistero dell’identità di Gesù vedendolo in azione, dal di dentro della sua vita.
E dentro a questo suo relazionarsi concretissimo a questa persona rivela di sé (e del Padre suo) un tratto strepitoso: Egli è accessibile anche alle donne! Egli è accessibile anche ai peccatori!
Perché in effetti, mentre prima cercavo di dire che Dio lo si può tirar via dal banco degli imputati solo accettando la sfida di averlo come un interlocutore affidabile nella nostra vita (attimo per attimo), mi veniva anche in mente una possibile facile obiezione: io posso anche dare del Tu a Dio... posso pure vincere le mie paure, le mie resistenze, le mie recriminazioni nei suoi confronti... ma Lui che ha a spartire con una come me?
Dio è sempre stato il Dio dei buoni, dei santi, dei giusti, dei bravi, dei forti, dei maschi, dei grandi... Non è mai stato accessibile alle donne, ai bambini, ai poveri, ai peccatori, agli stranieri (tutta gente che infatti stava fuori dal Tempio – o comunque in zone riservate e “lontane” dal Santo dei Santi).
In queste pagine invece si rivela qualcosa di eccezionale: Dio è quel Gesù che camminando per le strade della Samaria si incontra (e qui il verbo va preso nel senso forte di “si mischia l’anima”) con una donna («Giunge una donna»), una donna considerata eretica («una donna samaritana»), un’eretica peccatrice («Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero») e proprio a lei si rende accessibile come fonte della Vita: «Sono io, che parlo con te».
Ecco perché è possibile anche per noi metterci nella nuova prospettiva (convertirci) che «viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. [...] Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità».
Non è più questione di appartenenza etnica, religiosa, di genere, di casta, di santità... L’incontro col Signore è questione di spirito e di verità, o, se volete, di verità di spirito: cioè è questione di lasciarsi incontrare nella trasparenza del proprio essere, di quel centro vitale in cui noi siamo proprio noi...
O Dio lo si incontra lì nel nucleo vitale della nostra singolarità, o non è Dio, di certo non è il Signore della mia vita, non può essere la fonte che mi dà Vita.
È questa la nuova via aperta da Gesù nell’incontro col Padre: «noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo [...] perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato».
E non tengono più neanche le remore etiche che ci facciamo o che ci mettono addosso: «Infatti, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi». Non c’è scusa per non avventurar la vita sulle strade di questa amicizia... neanche il male commesso fa più da ostacolo... nel poter lasciarsi zampillare l’anima.

giovedì 21 febbraio 2008

Il Signore è in mezzo a noi, sì o no? - Sono io! che ti parlo

il prototipo della fede... la donna di tanti mariti! ...presso un antico pozzo biblico, a mezzogiorno, fuori orario per andare ad un pozzo, arriva una donna mai vista prima, razza e religione diverse e conflittuali... Gesù, seduto lì, spossato dal viaggio, inizia un approccio sorprendente per lei (e anche per i discepoli, dopo). Un dialogo, ...come si impara una lingua ignota in terra straniera. Partendo dall’esperienza comune delle cose semplici e concrete, evidenti a tutte due, provoca l’intuizione di un significato nuovo, per successive ambiguità e spiegazioni, equivoci e chiarimenti. Smonta dolcemente un’impalcatura interiore di paure e pregiudizi, bisogni e desideri, legami e rimorsi... e le fa intravedere e le induce nel cuore una costellazione di orizzonti nuovi... e infine un totale sconvolgimento della vita.
il sentiero difficile dei fraintendimenti: l’acqua e la sete, l’amore e i mariti, Dio e la sua casa, il messia e il suo vangelo, il pane e la fame, il missionario e il salvatore... sono i passi di questa privilegiata catecumena, alla quale un catechista d’eccezione insegna il cammino per diventare... discepola e apostola, come lui la sogna. Un arduo viaggio interiore, per portarla a disseppellire una sorgente d’acqua viva per la sua sete, non chissà dove, ma nel proprio intimo, scavando nei sedimenti induriti che le impediscono la conoscenza di sé e quindi la conoscenza di Dio. Le due immagini infatti sono speculari dentro di noi, e solo nella purificazione e ricostruzione della propria immagine di sé s’illumina l’immagine di Dio, e viceversa. Il racconto vivace dei desideri e delle resistenze, dello stupore e delle riluttanze di questa donna, segna in filigrana i passi critici della fede.
l’umiltà di Dio e la sua voglia di amore...: dammi da bere! dice lui - Io a te?! domanda incredulo il credente. Ma da questo rovesciamento dell’istanza religiosa, nella scoperta di un Dio che umilmente ci domanda udienza, comincia il risveglio. Se tu conoscessi il dono di Dio. Le nostre domande sviano il dialogo con lui! Prima di essere risposta, Dio è proposta. Prima di parlare bisogna ascoltarlo, se no sta zitto, e aspetta. È timido e umile. È Dio che ha sete di noi! è il dono che ci rovescia in cuore non è la risposta immediata ai nostri bisogni. L’uomo dialoga con lui affermandosi, Dio offrendosi! Infatti lo cerca, non per esserne servito, ma per fargli scoprire l’amore! Se il credente non lascia perdere ogni schema passato (sei tu più grande del nostro padre Giacobbe?...) per accoglierne invece la sfida di provare adesso a “bere l’acqua che io gli darò”, rimarrà sempre impigliato in un oppressivo ingabbiamento culturale, che non farà mai sgorgare dentro di lui lo zampillo che disseta e porta gioia.
il narcisismo egocentrico. È un circolo vizioso. L’amore non funziona perché non si apre all’altro, ma cerca se stesso, cioè la propria immagine e il proprio soddisfacimento. Non incontrando nessuno che lo ami, la sete insaziata moltiplica i tentativi di dissetarsi e la conseguente frustrazione... Anziché patire una grande sete , sembra più comodo inseguirne molte, piccoli e inappaganti. Gesù non rimprovera la donna per i cinque mariti, le fa osservare la sua situazione senza aggressione moralistica... Sa che non ha imparato ad amare, perché nessuno l’ha mai amata gratuitamente, in perdita – per amore! È l’apprendimento più difficile e più importante della vita. Si impara ad amare per contagio, per esser venuti in contatto con chi ti fa sperimentare che amare vuol dire consegnarsi alla sete dell’altro. Questo amore accende una nuova dinamica interiore, che ha il suo senso e la sua garanzia in se stessa. Lo sappia o no, si è incendiata ad un Amore che genera e nutre ogni amore, senza fine.
necessità e rischio della religione, la religione può diventare una gabbia per la fede. Ci sono valori e priorità, insegnamenti e sacramenti, di cui bisogna tenere conto (la salvezza viene dai giudei!). Ma sono genuini e autentici se e indicano la strada e accompagnano e aiutano per arrivare allo scopo...ma non sono lo scopo. Lo scopo è credere e accogliere in Spirito e verità che “Dio è Padre”. Dio non abita sui monti o nei templi, nei catechismi o nei dogmi, e nessuno può sostituirti nel tuo cuore per ascoltarlo e parlare con colui. La garanzia di questa scoperta, che Dio ci sta cercando da ogni parte e in ogni modo - proprio ora! ‑ è lo Spirito di amore che ci è donato nel figlio, quello che insegna al nostro cuore il gemito dell’attesa, che invoca: abbà, Padre! questa è la verità che salva!
“Io sono, che ti parlo!”... Attaccato acriticamente ai Padri antichi, alle tradizioni del passato, non più vitali per lui, il credente fa fatica a scoprire il presente di Dio. E quindi va in crisi ad ogni sofferenza e si ribella: il Signore è in mezzo a noi o no? Rischia di regredire nella religione come schiavitù o di fuggir nel futuro apocalittico. Ma il Signore non vuole servi. Si offre come amico, che è presente adesso: io ci sono! è sempre la sua risposta. Ma poiché non sembra soddisfare i nostri bisogni, assecondare i nostri pensieri, percorrere le nostre strade, Dio non c’è! Mentre il Signore indica chiaramente i luoghi dove dice: “sono io!” la Parola, l’eucaristia, i poveri, il prossimo della vita quotidiana... È qui, in loro, che Gesù ci prega: dammi da bere, da mangiare, consolazione, perdono...
il pane, Gesù non ha soltanto un’altra acqua per la nostra sete, ha anche un altro pane per la nostra fame. Come la samaritana si domandava di che acqua mai parlasse per avere questo potere di dissetare per l’eternità, così i discepoli domandano di che pane parli... Gesù lo indica nella volontà del Padre, che lo ha mandato perché semini nel mondo il seme della salvezza – che poi i discepoli mieteranno – come frutto per la vita eterna! La semina sta compiendosi con la predicazione del Vangelo... fino nei campi lontani, pronti per la mietitura – quando la salvezza sarà offerta a tutto il mondo, perché questa è la volontà del Padre, che tutti siano salvi!
la prima missionaria... La donna ha capito bene che la salvezza è questo nesso tra il presente (l’acqua e il pane) ... e la vita eterna! e questo segreto gli esplode in cuore. Tutto il paese ne è contagiato... e accorre a Gesù, per conoscerlo personalmente. Con la diffusione dell’amore si compie in lei la parabola salvifica della fede cristiana.

“la fede contiene una speranza che appaga – non un vago presentimento del futuro – perché essa al di là di tutti gi stadi intermedi, afferra il proprio compimento, non è semplicemente afferrata da esso... non ha alcuna ragione di fuggir un presente che si pretende incompiuto per un futuro più perfetto. Essa perderebbe in tal caso insieme al presente, lasciato perdere come di poco valore, anche l’eternità che vi dimora. La fede si riempie di questa eternità, soltanto adempiendo la missione, che da questa eternità viene per ogni tempo: solo nell’oggi coincidono tempo ed eternità: Ma la missione che si sta adempiendo è una cosa sola con la preghiera: Venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra! Con l’adempimento della missione, l’eternità viene nel tempo, sulla via del futuro. Quindi anche il tempo cammino sulla via dell’eterno; e nell’eterno sta già, come risorto, il tempo passato. ... Questo cammino, ricco di tensione, del credente attraverso il tempo, verso il Risorto, è il vero progresso del mondo!” [ H.Urs von Balthassar, Il tutto nel frammento, Jaka Book,1990, p.289]).

Luca 16,19-31

In quel tempo, Gesù disse ai farisei: “C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando nell’inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi. E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento. Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti sarebbero persuasi”.

Il ricco! Ciascuno si fa una propria idea sul "quando si è ricchi" e di cosa è la ricchezza...
Ci sono anche tante ricchezze (qualunque cosa intendiamo con questo termine) che non vogliamo distribuire... In primis quelle "interiori", perché fare il generoso coi soldi poi non è tanto difficile: se ne ricevono anche tante gratificazioni e riconoscenze. Magnate, benefattore!
Se si prova invece a condividere semplicemente la propria vita...
Forse è per questo che rileggendo la parabola mi veniva in mente un certo tipo di concepire la "vita religiosa", la santità: chiusa in una torre d'avorio, incurante del grido di povertà interiore di una umanità che domanda condivisione di vita!
Eppure Gesù ha scelto di non salvarsi! Per salvare noi: poveri dentro!

Faremo la fine del ricco! Noi che ci siamo così preoccupati della nostra fedeltà formale per acquisire il benessere interiore, da non renderci conto di coloro che bussano alla porta dei nostri cuori (e delle nostre comondità) domandando un poco di amicizia condivisa!

Ci sono religiosi che si sono fermati alla tomba del loro fondatore e non sanno staccarsene... Essere fedeli al carisma del proprio fondatore, vuol dire saper andar oltre: avventurarsi nella storia, "prendere il largo", con lo stesso Spirito che li ha animati! Altrimenti non si chiama fedeltà, si chiama necrofilia!

mercoledì 20 febbraio 2008

Matteo 20,17-28

In quel tempo, mentre saliva a Gerusalemme, Gesù prese in disparte i Dodici e lungo la via disse loro: “Ecco, noi stiamo salendo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi, che lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché sia schernito e flagellato e crocifisso; ma il terzo giorno risusciterà”. Allora gli si avvicinò la madre dei figli di Zebedeo con i suoi figli, e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli le disse: “Che cosa vuoi?” Gli rispose: “Di’ che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno”. Rispose Gesù: “Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?” Gli dicono: “Lo possiamo”. Ed egli soggiunse: “Il mio calice lo berrete; però non sta a me concedere che vi sediate alla mia destra o alla mia sinistra, ma è per coloro per i quali è stato preparato dal Padre mio”. Gli altri dieci, udito questo, si sdegnarono con i due fratelli; ma Gesù, chiamatili a sé, disse: “I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti”.

Il potere: l'illusione della libertà, la certezza della solitudine!

martedì 19 febbraio 2008

Matteo 23,1-12

In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filatteri e allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare ‘‘rabbì’’ dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare ‘‘rabbì’’, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno ‘‘padre’’ sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare ‘‘maestri’’, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato”.

Sappiamo che il Vangelo di Matteo si rivolge ai cristiani che vengono dal giudaismo. L'autore ha tutto "l'interesse" quindi ad accentuare la polemica con le autorità religiose dell'epoca anche in funzione della tesi fondamentale della sua teologia: Gesù è il vero e definitivo Mosé!

È all'interno di questa prospettiva che va cercata una comprensione adeguata delle parole che Matteo mette in bocca a Gesù: non è una lezione moralistica sull'agire degli scribi e dei farisei. Matteo ponendo da un lato Gesù come fondamento della verità di tutta la Tradizione religiosa ebraica, lo situa dall'altro a fondamento del fare umano.

Infatti come l'espressione dicono e non fanno non è una ragione per non fare quel che dicono, così le speculari espressioni non dicono e fanno, oppure dicono e fanno, non sarebbero una ragione per fare quel che dicono! È Gesù che pone se stesso a fondamento del fare! Cosa che è ribadita alla fine con l'espressione uno solo è il vostro Maestro, il Cristo! In questo senso non esistono più altri maestri possibili.

Tra il dire e il fare non ci sta di mezzo il mare, ci sta di mezzo Gesù.
Quando manca un volto "umano" di Dio, il presunto culto reso a Lui, è in realtà esaltazione di sé e annichilimento dell'altro, in tutte le sue infinite e "folcloristiche", ma non meno drammatiche, deviazioni storiche. Per questo la frase il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato, non è una norma morale che si aggiunge alle altre, ma la possibilità di scoprire in Gesù, in un rapporto vitale con lui, il volto umano di Dio. Ma non basta dire Gesù! Il rischio di proiettare su Gesù quello che abbiamo proiettato per anni sulla nostra idea di dio, si può evitare soltanto se impariamo a lasciarci condurre dallo Spirito sulle stesse modalità di rapporto col Padre che ha vissuto Gesù. E la croce è il suo essere innalzato nel suo essersi abbassato!

Non c'è più allora dire e fare, ma il fare resta l'unico modo di dire:
Il farsi servo resta l'unico modo di dire Padre,
il farsi servo resta l'unico modo di dire fratello,
il farsi servo resta l'unico modo di dire...

sabato 16 febbraio 2008

Tra sofferenza e benedizione: la dinamica evangelica

sofferenza e forza consolante
la promessa fatta ad Abramo di divenire la benedizione di tutte le famiglie della terra è legata alla sofferenza di un distacco violento dalla ‘sua’ terra, dal suo popolo (dal suo io di carne!)... Il cammino verso Dio del patriarca della fede inizia con uno strappo, uno sradicamento da tutto quanto possedeva. Perché la benedizione di cui Abramo è portatore non sia legata a lui, alla sua tribù o al suo lavoro, ma solo alla promessa di Dio, che in lui si è manifestata “liberamente” e ne ha trasfigurato il destino... Nella radicale rinuncia è seminata la fecondità illimitata. La promessa è già adesso forza propulsiva che lo spinge a partire e camminare verso l’ignoto. La promessa così accolta diventa consolazione nelle sofferenze, come pregustando già in anticipo il loro frutto.
È questa l’esperienza profetica della dinamica cristiana, nella quale Paolo vuole coinvolgere Timoteo: soffri anche tu insieme con me il Vangelo, aiutato dalla forza dello Spirito..., perché proprio questa è la buona notizia: l’annuncio della nostra chiamata alla grazia, come dono di partecipazione alla stessa vita divina, che ci è data in Cristo Gesù, che ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l'immortalità per mezzo del vangelo.
la trasfigurazione
il racconto della trasfigurazione, nel vangelo di Matteo, è strettamente legato alla passione, preannunciata da Gesù appena prima e ribadita subito dopo. Come per i modelli antichi, (Abramo, Mosè, Elia...) anche per il discepolo di Gesù si esige il distacco totale dalla sua identità precedente: per cui alla trasfigurazione è premessa la dichiarazione esplicita e perentoria delle condizioni previe per parteciparvi!. Infatti soltanto chi è disposto a rinnegare se stesso, portare la propria croce e addirittura perdere la propria vita ... può seguire Gesù.
Solo dopo la risurrezione i discepoli hanno effettivamente capito il monito di Gesù, di non parlarne prima... e finalmente hanno capito la “metamorfosi” (come dice il greco) di Gesù – che ha assunto una forma diversa di fronte a loro, il cui volto, come dice Luca., è diventato ‘altro’ da quello che appariva nel quotidiano. Hanno capito che dal suo cuore, emanava come un’esplosione di luce, il mistero intimo del Messia, che nella sua vita storica, tiene insieme cose inconciliabili: la potenza divina e la debolezza umana, la sofferenza fino all’angoscia e la gioia di vedere realizzato il disegno di amore del Padre, lo svuotamento di ogni bene e la fecondità della salvezza... E la Trasfigurazione diventa un’icona ove sono concentrati luminosamente e prendono il loro vero significato, i passi e le vicende determinanti del cammino di Israele.
Sono presenti, infatti, Mosè ed Elia, i grandi personaggi che hanno accompagnato la sua storia millenaria, il mediatore della Legge ed il padre dei profeti, che sono venuti a parlare con lui, per confortarlo ed essere testimoni del compimento della parabola della salvezza, ormai arrivata in Gesù alla sua meta. Mosè, chiamato da Dio a guidare la marcia errabonda di Israele verso la libertà, provò ripetutamente il fiele amaro del rifiuto e dell'abbandono; e morì guardando la promessa da lontano, ostinatamente fedele al Dio che l’aveva spinto fino là. Elia, profeta ardente e impetuoso, insofferente di ogni forma di idolatria, solo nel dolore aspro del fallimento scoprì che non i suoi progetti violenti e la sua cieca dedizione (non migliore di quelli dei padri!), salveranno il suo popolo, ma la presenza silenziosa e impercettibile di Dio. Tutt’e due sono lì a testimoniare una fede mantenuta in situazioni difficili e talora disperate, e poi sfociata in esiti imprevedibili a loro stessi.
Adesso Pietro crede di capire, finalmente, cosa è avviene di fronte ai suoi occhi: si sono manifestate simbolicamente le tre tende della presenza di Dio , quasi tre successive abitazioni del Signore nella storia del suo popolo: la legge, la profezia... e il corpo di carne di Gesù. Non ha ancora finito che, una voce, dalla nube luminosa proclama: Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo! Dunque questa ultima “tenda” e di tutt’altra natura. Non è solo la nuova legge che conduce a Dio, né la profezia che intravede nelle vicende storiche i barlumi di amore di Dio. È il figlio stesso, prediletto, di Dio, in cui, il Padre trova la sua gioia, perché lui salverà il mondo che il Padre “tanto ama”. Tutto quello che Gesù ha fatto e detto è l’esegesi, la spiegazione, l’incarnazione dell’amore del Padre. Che così è divenuto percepibile a noi, al nostro linguaggio, al nostro coinvolgimento mentale e affettivo... Il suo amore di infinita benevolenza diventa umano... Questa è la gioia che lo fa rallegrare di compiacenza. Per questo davvero la gioia di Dio è la nostra forza.
...e levati gli occhi non videro più nessuno, se non lui, Gesù, solo!
...il discepolo non vede più la gloria del Signore Gesù. Gli resta davanti agli occhi il Gesù terreno e in cuore l’eco della voce che gli spiega chi Egli è. Non si tratta di una parola che trasmette nozioni. Racconta del figlio di Dio sulla terra, di come seguirlo, e qual è il senso della storia nella quale viviamo. Dunque una parola che indica chi guardare, ciò che dobbiamo fare e come dobbiamo interpretare le cose che accadono. Questa è la fede. E questa è l'unica via che conduce alla Pasqua. Adesso il problema non è più di Gesù, è quello dei discepoli – soli! Lui ha già messo in conto la sua solitudine e il suo abbandono, come ripetutamente ha predetto. Sono loro che devono uscire dal lungo sonno che durerà fino all’altra scadenza finale del dramma, quando gli stessi tre testimoni privilegiati, ma non più acuti degli altri, vedranno la sua disperazione e la sua debolezza estrema... ma fedele, fino alla morte. Fino a quando un ignaro centurione romano, dalla nube laica della sua rusticità militare, ribadirà la voce divina: costui era veramente figlio di Dio! Così sembra chiudersi la tragedia più dirompente della storia dell’umanità, un venerdì sera, di fretta, perché era in arrivo il giorno di festa, dopo una esecuzione volentieri archiviata da Pilato, consegnando il cadavere per la sepoltura, inosservata ai cronisti importanti, abbandonata alla sua sorte desolata anche dai suoi discepoli terrorizzati ...
Cos’è che dovranno capire... dopo la risurrezione? La coltre della necessità (la marcia pesante immodificabile della vita e della storia!), era stata squarciata per un momento sul Tabor (dove solo per un istante si è manifestare il tesoro esplosivo di luce e di amore che racchiude) continua a dominare il mondo, attraverso altri attori che si ritengono importanti (come allora Pilato, Erode Caifa... i capi, i colti, i sacerdoti) che gestiscono il potere, manovrano le folle, sfruttano le paure, i peccati e i tradimenti, ma sono soltanto rotelle asservite ad un meccanismo che tende a maciullare nelle sue spire ogni possibilità di resistenza, di amore e libertà... Ma dal momento in cui l’Innocente crocifisso non è più nella tomba, ma appare, vivente, a confortare i discepoli... questi finalmente aprono gli occhi addormentati... e scoprono – adesso! ‑ il messaggio della trasfigurazione.
Il meccanismo cieco del potere e della necessità, cui anche Gesù si è consegnato, non spegne con la sua muta inarrestabile prepotenza la sua libertà, anzi lo manifesta “Signore”, vinto, tradito e ucciso, ma Re, se pur di un altro regno. LA “forza” di questo “spirito” incoercibile, è non altre forme di potere religioso o politico, è ciò che Gesù dichiara caratteristico dei suoi discepoli (At 1,8). La “necessità” non è dunque la repressione invincibile della libertà, ma semmai ne può diventare la culla. Impone senz’altro all’uomo di accoglierla, innanzitutto, ma il discepolo di Gesù impara a farlo con una forma di recettività, o passività, viva e vigile, intelligente e indomita, che apre spazi impensati di creatività. Alla luce della risurrezione, la violenza oppressiva va denunciata e combattuta, come ha fatto Gesù, che si è opposto al potere oppressivo ed ha insegnato, guarito e perdonato, quanto ha potuto, nella sua vita storica Ma quando la forza non più resistibile della necessità o del potere (che è sempre vis coactionis – forza violenta) incombe su di lui, il discepolo (che non si scorda più la trasfigurazione dell’uomo Gesù) impara a relativizzare ogni potere... Ne accetta piuttosto la sfida che lo sollecita a non “adorarlo”, a non svendere il cuore, ma a riscoprire, proprio nell’oppressione, la sfida di essere se stesso – nella scelta della libertà e dell’amore. Ecco perché tante volte Gesù ripete questo monito duro alle orecchie dei discepoli (e nostre!)... è necessario che il figlio dell’uomo soffra! – È Gesù stesso, dunque che aggancia tra loro indissolubilmente, nel nodo della trasfigurazione, la sofferenza e la gioia. Prevenendo appunto i discepoli sull’incomprensibilità di questa mistura, prima che la resurrezione apra gli occhi della fede su un esito assolutamente imprevisto e incredibile. Qui è il vangelo stesso che identifica il Cristo della storia con il Cristo della fede – direbbero i teologi! – e in questo sta l’accessibilità anche a noi della “sua” salvezza! La sofferenza è necessaria, perché è una sofferenza di parto, senza la quale non nasce né cresce l’uomo nuovo, modellato sui passi del Risorto, che ha sofferto, ma ormai è trasfigurato per sempre. E l’uomo nuovo nasce quando nella sofferenza e nel contrasto della vita, reagisce alla necessità e all’oppressione, e ritrova la sua libertà interiore, che nessuno può reprimere. Si scrolla di dosso la tentazione vischiosa di non sperare più nella promessa, si guarda dalla deriva interiore che avvelena la voglia di vivere e di credere e di amare... e invece impara dall’apostolo ad essere “lieto nella sofferenza, che sopporto per voi e completo nel mio corpo ciò che manca ai patimenti del Cristo, per il suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).

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unus novellus pazzus in hoc mundo...
la sofferenza e la letizia

Il Signore così diede a me frate Francesco di cominciare a far penitenza: essendo nei peccati, troppo mi sembrava amaro vedere dei lebbrosi. E lo stesso Signore mi condusse tra loro e feci loro misericordia. E, allontanandomi da loro, ciò che mi era sembrato amaro mi si trasformò in dolcezza nell’anima e nel corpo; e stetti per poco e uscii dal mondo. ...
E dopo che il Signore mi diede dei frati, nessuno mi mostrava cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo evangelo. E io con poche parole e semplicemente lo feci scrivere e il papa me lo confermò.
E quelli che venivano per accogliere questa vita, davano ai poveri tutto ciò che potevano avere; ed erano contenti di una tonaca, rappezzata dentro e fuori, con cingolo e delle brache. E non volevano avere di più...
Ed io lavoravo con le mie mani, e voglio lavorare: e tutti gli altri frati voglio fermamente che si adoperino in lavori che siano onesti. Coloro che non sanno, imparino, non per avidità di ricevere il prezzo del loro lavoro, ma per dare l’esempio e per tenere lontano l’ozio. E quando non ci fosse dato il prezzo del lavoro, ricorriamo alla mensa del Signore, chiedendo l’elemosina, porta per porta...
E fermamente voglio obbedire al ministro generale di questa fraternità ed ad ogni guardiano che gli piacerà darmi. E voglio essere schiavo nelle sue mani così da non poter andare o fare nulla al di là dell’obbedienza e della sua volontà, perché è il mio signore.

E non dicano i frati: Questa è un’altra Regola, perché questa è ricordo, ammonizione, esortazione e mio testamento, che io frate Francesco piccolino faccio a voi frati miei benedetti per questo: che osserviate più cattolicamente la regola che abbiamo promesso al Signore... E a tutti i miei frati chierici e laici fermamente comando che non mettano glosse alla regola né a queste parole, dicendo: Debbono essere intese così. Ma come il Signore mi diede di dire e di scrivere con semplicità e purezza la regola e queste parole, così intendetele con semplicità e senza glossa e osservatele con un santo operare sino alla fine...
Ti dico come posso per quanto concerne l’anima tua, che quelle cose che ti impediscono di amare il Signore Dio, e chiunque ti sarà di ostacolo siano frati o altri, anche se ti picchiassero, tutto devi ritenere come grazia. E così devi volere e non diversamente: E ciò ti sia per vera obbedienza del Signore Dio e mia, poiché so per certezza che questa è vera obbedienza. E ama coloro che ti fanno queste cose e non voler altro da loro, se non quanto il Signore ti avrà dato. E in questo amali, e non volere che siano migliori cristiani. E questo sia per te più che un romitorio.
[lett. ad un Superiore]
Ritorno da Perugia e a notte fonda giungo qui ed è tempo invernale, pieno di fango e così freddo che si formano all’estremità della tonaca ghiaccioli di acqua gelata, che battono continuamente contro le gambe, così da far uscire sangue da queste ferite. E tutto infangato, infreddolito e ghiacciato arrivo alla porta e dopo aver bussato a lungo e chiamato, viene il frate e chiede: “Chi è?”. Io rispondo: “Frate Francesco”. E lui dice: ”Vattene, non è ora decente per arrivare, non entrerai”. E ancora dopo mie insistenze risponde: ”Vattene, sei un poveraccio e un ignorante; perciò non vieni da noi, noi siamo tali da non aver bisogno di te”. E ancora io sto alla porta e dico: “Per amor di Dio, accoglietemi per questa notte”. E quello risponde: “No. Vai dai Crociferi e chiedi là”. Ti dico che se avrò avuto pazienza e non ne sarò turbato, in questo è vera letizia e vera virtù e salvezza dell’anima.
[La vera e perfetta letizia]
Fratelli, fratelli miei, Dio mi ha chiamato a camminare la via della semplicità e me l’ha mostrata. Non voglio quindi che mi nominiate altre Regole, né quelle di sant’Agostino, né quella di S. Bernardo o di S. Benedetto. Il Signore mi ha rivelato essere suo volere che io fossi un novello pazzo nel mondo: questa è la scienza alla quale Dio vuole che ci dedichiamo! Egli vi confonderà per mezzo della vostra stessa scienza e sapienza. Io ho fiducia nei castaldi del Signore, di cui si servirà per punirvi. Allora, volenti o nolenti, farete ritorno con gran vergogna alla vostra vocazione.
[al Capitolo Gen.]
Siamo sposi, quando nello Spirito Santo l’anima fedele si unisce a Gesù Cristo. Siamo fratelli, quando facciamo la volontà del Padre suo, che è nei cieli; madri quando lo portiamo nel cuore e nel corpo grazie all’amore e a una pura coscienza; lo partoriamo con un santo modo di operare che deve risplendere quale esempio per gli altri.
[Lett. a tutti i fedeli]

[Cfr. G. MICCOLI, Seguire Gesù povero, Qiqajon 1993]...

giovedì 14 febbraio 2008

La Trasfigurazione: il coinvolgimento dell'uomo nella drammatica della libertà di Gesù, il Cristo

In questa seconda domenica di Quaresima, la Chiesa attraverso il Vangelo di Matteo (17,1-9) ci invita ad addentrarci in uno degli eventi più enigmatici dell’esperienza terrena di Gesù, che è appunto la sua trasfigurazione.
Già di fronte al solo pronunciare questa parola, trasfigurazione, in noi è come se si creasse un senso di inadeguatezza, un alone di mistero… quasi forse un sentimento di inquietudine: ci sentiamo messi di fronte a uno di quegli episodi della vita di Gesù che, per come ce li hanno raccontati fin da piccoli, si discostano troppo dalla nostra capacità di comprensione, perché li sentiamo al di là della nostra umanissima esperienza. E chissà come, dalle profondità ataviche del Cristianesimo succhiato al seno di nostra madre, sentiamo improvvisamente che l’umanissimo Gesù che siamo abituati a trovare nel Vangelo, ora ci pare così lontano… ci incute quasi timore.
Eppure, se guardiamo bene al testo, non ci sarebbero poi così tanti elementi a sostegno di questa sensazione istintiva che ci nasce in cuore: tutta la vicenda è infatti raccontata nel giro di pochi versetti, manca di qualsiasi presentazione dal sapore enfatico, è priva di ogni euforico senso del miracoloso e addirittura si conclude con un deciso invito a non sponsorizzare l’accaduto.
Si potrebbe quasi anzi dire che il modo di raccontare questo fatto da parte di Matteo (come anche di Luca e Marco) sia il più demitizzato possibile: volendo, avrebbe potuto caricarlo di prodigiosità, avrebbe potuto sfruttarlo per convincere alla fede i suoi lettori, avrebbe potuto anche forzare un po’ la mano e sottolinearlo tanto da farlo diventare il momento clou del suo vangelo.
E invece no: invece, appunto, gli dedica pochi versetti e tiene un profilo narrativo basso.
Questo è un indizio significativo di quale sia l’intento dell’evangelista: egli non sta pubblicizzando Gesù, come una delle tante proposte di salvezza presentate all’umanità, ma dentro all’evoluzione della narrazione evangelica, con la quale questo brano sta in continuità, vuole portare pian piano il discepolo all’incontro con l’identità del suo Maestro e Signore.
È in questa prospettiva che va letta anche la trasfigurazione: essa, da un lato, è uno dei momenti della vicenda della libertà di Gesù (è un’esperienza che fa Gesù); dall’altro, è il coinvolgimento in questa vicenda da parte dei suoi discepoli, i quali non la conoscono su un libro o attraverso il sentito dire di qualcun altro, ma lasciandosene implicare e compromettendosi in prima persona.
Questo modo, che è l’unico vero, di conoscere qualcuno, non è stato possibile solo allora e a noi precluso per un’incolmabile distanza spazio-temporale: tutto il NT anzi trasuda la certezza di un’accessibilità reale per il discepolo di qualunque tempo alla drammatica storica di Gesù. Essa è percorribile proprio nella stessa dinamica di implicazione e compromissione, che era propria dei discepoli della prima ora.
Ecco perché credo utile provare a ripercorrere il senso del brano evangelico che la liturgia ci propone, puntualizzando proprio questa dimensione: il coinvolgimento con la sua identità che il Signore ha inteso proporre ai tre discepoli, in questo episodio della trasfigurazione.
Dicevo prima infatti che questa è sia un’esperienza di Gesù, sia un coinvolgimento dei discepoli (e di noi in quanto discepoli) in questa stessa vicenda. Perché sottolineo questo? Perché mi veniva da chiedermi: Ma Gesù quando ha chiamato «in disparte su un alto monte Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello» sapeva che sarebbe stato trasfigurato «davanti a loro»?
So che sono quelle domande che non si dovrebbero mai fare, perché – come insegnano agli studiosi – al testo non si dovrebbero mai porre domande eterogenee al testo stesso, però mi pare che possa aiutarci a inquadrare un po’ la situazione.
Infatti, leggendo il resto del brano, sembra che Gesù viva con molta naturalezza questa esperienza: di lui non è raccontata nessuna reazione, nessuna parola, se non sul finale quando appunto «Gesù si avvicinò, li toccò e disse: “Alzatevi e non temete”». Forse questo può farci dire che non è stata un’esperienza così inaspettata per Gesù; forse possiamo addirittura arrivare a dire che il suo comportamento, per come ce lo dipingono i sinottici, in quell’occasione è stato quello di chi vive qualcosa di conosciuto, quasi di usuale: Gesù non si è spaventato come gli altri.
In questa prospettiva, riprendendo la nostra impertinente domanda, potremmo dire che, sì,in qualche modo, Gesù ha scelto di portare con sé i tre discepoli (quelli delle occasioni importanti) per coinvolgerli appunto in uno dei momenti essenziali della sua identità: la sua relazione col Padre e in Lui, con la Legge (Mosè) e i profeti (Elia).
Di questo rapporto, quello che emerge dai versetti matteani, sono sì i tratti classici della teofania (la luminosità, l’apparizione, la voce dalla nube…), che stanno lì a dire che appunto in gioco c’è il relazionarsi a Dio, ma soprattutto la messa in campo di una dialogicità: «Mosè ed Elia, che conversavano con lui», «una voce dalla nube che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo”».
È in questa sua esperienza di relazione dialogica con Dio e con la storia della salvezza che Gesù vuole coinvolgere i suoi tre discepoli, quasi a tirarli dentro nel più intimo della sua intimità (il suo rapporto col Padre). In questo senso questa è davvero un’esperienza rivelativa, un momento cioè in cui Gesù dice davvero di sé; ma appunto lo fa non con un bel discorso, ma tirando dentro alla sua vicenda (intanto che la vive!) anche altri.
E questi altri?
Beh, questi altri… che siamo poi un po’ anche noi, fanno un po’ la figura degli inetti…
La prima cosa che si dice a loro riguardo, di Pietro in particolare (gli altri sono addirittura ammutoliti), è che prende la parola, ma, come Marco e Luca addirittura esplicitano, non sa che dire: «Non sapeva infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento» (Mc 9,6), «Egli non sapeva quel che diceva» (Lc 9,33). Matteo invece, per mostrare il suo dire inopportuno, non lo fa neanche finire di parlare: «Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce…».
Matteo inoltre aggiunge anche un’ulteriore notazione dell’inebetimento dei discepoli: «All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore».
Pare che il tentato coinvolgimento di Gesù non sia andato a buon fine: i tre discepoli non capiscono, non sanno che dire e anzi si spaventano, tanto da ritrovarsi a terra tremanti e quasi tramortiti…
Ma non è il caso di essere troppo duri con loro, anche perché forse non sono così lontani da noi e da quell’immagine che tutti noi uomini abbiamo misteriosamente impressa nella mente di un dio spauracchio dell’uomo, di un dio rivale all’uomo, di un dio che fa paura («il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”»)!
In questa ottica è comprensibile la reazione dei tre; senza contare che stiamo parlando di Ebrei, per i quali udire la voce di Dio può comportare addirittura la morte (Dt 4,32-33: «Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l'uomo sulla terra e da un'estremità dei cieli all'altra, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l'hai udita tu, e che rimanesse vivo?»).
Eppure la voce di Dio («voce di tuono» secondo Es 19,19) stavolta aveva un messaggio di speranza: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». Ma neanche questo basta.
È qualcos’altro che fa da chiave di volta nell’emotività dei discepoli. Perché effettivamente un cambiamento in loro c’è; li ritroviamo infatti un versetto dopo (v. 10) tutti tranquilli che intraprendono un discorso teologico con lo stesso Gesù: «Allora i discepoli gli domandarono: “Perché dunque gli scribi dicono che prima deve venire Elia?”».
Cosa gli ha fatto ritrovare il riordinamento della sensibilità poc’anzi così sconvolta?
È stato il tocco di Gesù: «Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: “Alzatevi e non temete”».
È proprio questo modo nuovo di essere Dio in Gesù che permette all’uomo di non stare più prostrato pieno di paura, ma, toccato, di rialzarsi e coinvolgersi, in un ritorno al dialogo con Gesù, il Figlio che rivela un Dio che ama («Questi è il Figlio mio, l’amato»), che promette affidabilmente benedizione («Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra»). E questa è la buona notizia (Vangelo) per cui val la pena anche soffrire («soffri con me per il Vangelo»): che Dio è questo qua!

venerdì 8 febbraio 2008

Il lungo cammino per imparare ad amare

Nella vita di Gesù le beatitudini sono il traguardo luminoso della sua personale ricerca del volto paterno di Dio nelle vicende umane. Nella comunità di Matteo, diventano le “congratulazioni” di Dio che confortano il cammino difficile dei discepoli nella storia. Sono il nucleo esplosivo del messaggio cristiano. Analogamente le tentazioni sono le alternative diaboliche (de/vianti, per/verse) proposte alla sua libertà, nei passi determinanti del cammino di immersione nella storia degli uomini. Nei tre lapidari dibattiti con satana è concentrato simbolicamente il dramma di tanti scontri e collisioni della sua vita tra le due alternative, nella conquista interiore di un’assoluta consegna, (adora il Signore Dio tuo!...) consegna totale, senza remore, ma irta di trepidazione, di sofferenza, di preghiera, di audacia inventiva, spesso dissidente rispetto al contesto socio-religioso nel quale viveva, che fa emergere in ogni frangente lo sbilanciamento di Gesù per il Regno del Padre (...e il suo nome e la sua volontà!). Un’esperienza di guerra totale contro il male, pagata sulla sua pelle, per imparare ad amare sempre, senza cedere mai alla paura e all’egoismo, senza tentennamenti né pentimenti, tanto è totale il suo amore. Perché non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici. Ma dare la vita, “tutta una vita”, non è stata una passeggiata programmata sui sentieri della Palestina, con le sue tappe e le sue visite, gli incontri che si snodano quasi fossero sacre rappresentazioni, come lascia intendere talora una agiografia un po’ monofisita. Che non sembra molto convinta che Gesù ha condiviso in tutto, eccetto il peccato, la nostra condizione umana. Nella quale costruisce la propria identità solo progressivamente, nel travaglio della debolezza della carne, in una sfida rinnovata ogni volta nelle scelte drammatiche e dolorose, quando perfino sua madre e si suoi fratelli lo ritenevano “fuori di sé” (Mc 3,21). Quando la delusione per l’insuccesso del sogno di un Messia potente svuoterà la fede dei discepoli che lo lasciano solo, come nell’angoscia mortale che offrirà a Satana “il suo momento” per l’estrema tentazione (Lc 4,13).
I bisogni primari nella vita di Gesù… Non si trattava soltanto di sopravvivere, lui e si suoi...il mangiare, bere, vestirsi… la casa e gli affetti, e le varie necessità essenziali pur semplicissime, che dopo l’infanzia imparò a soddisfare con il lavoro duro delle sue mani, come la tradizione e le Scritture insegnavano. Ma soprattutto era in gioco la compassione per i bisogni ... disattesi o disprezzati, dei poveri, malati, oppressi …che costituiranno apertamente i suoi interlocutori preferiti degli anni della vita pubblica … L‘impazienza di intervenire e lo struggimento dell’impotenza di fronte al male, avranno fatto venire anche a Gesù un’umanissima voglia di miracolo, pur di soccorrere il disperato che non ha più dove sbattere la testa, il piccolo violentato nella sua crescita umana, l’affamato che si è smangiato ogni sentimento umano perchè non ha cibo per il suo stomaco né tenerezza per il cuore. Ecco il desiderio che il Padre trasformi non solo le pietre in pane, ma le rocce in case e il deserto in scuole e ospedali e rifugi d’accoglienza per chi ha perso ogni riparo… E invece gli tocca – anche a lui! imparare ad amare E anche lui dopo quel poco che può fare, dichiararsi servo inutile per questo tipo di bisogni. Ed abitare nella nostra stessa impotenza, accanto alla sofferenza senza rimedio. Ed imparare quanto è amaro e duro, rinunciare ad usare Dio per tappare i vuoti della nostra storia, cercando invece di accompagnare umilmente la gente nel deserto inospitale della vita. E ascoltare quale Parola esce dalla bocca di Dio, dentro le situazioni senza uscita nelle quali lascia vivere i suoi figli. E, infine, imparare ad amare, senza pretendere inutili miracoli!
L’ingombro dell’io nel cammino della consegna di sé al Padre. Si può chiamare questa tentazione in tanti modi, perchè plurime sono le modalità e le metamorfosi dell’io – il nostro “io” che è un intero ufficio di regìa, misteriosamente installato nella corteccia cerebrale, ma di fatto ‘signore’ del cuore dell’uomo. Dove, con tanta trepidazione e altrettanto irrefrenabile presunzione, cerca di imporre una strategia unitaria nella costruzione della nostra identità. In questo lavoro di una vita, il potere, il piacere, la fama, la cultura… perfino la santità, secondo la storia di ognuno, diventano il materiale di costruzione della “figura” di sé, questo idolo (o ideale!) da perseguire a tutti costi nella vita. Da qui nascono le nostre laboriose fabulazioni per rivestire il nostro personaggio di pregi e di successi, per non sentirci nudi nei vari campi in cui ci spendiamo, nei pochi anni che ci sono dati! Anche Gesù era un uomo, necessariamente in scoperta e costruzione progressiva della sua identità, nello specchio d’amore del Padre. È partito da una consapevolezza forte di Messia salvatore, che a breve avrebbe salvato Israele, come sembra di vedere al battesimo o nella sinagoga di Nazareth e in tanti incontri di guarigione e di perdono… nei primi mesi della sua missione di profeta e taumaturgo itinerante.
Il potere e la violenza. Ben presto, il fallimento della missione in Galilea e la tragedia finale che incombe lungo tutto il viaggio verso Gerusalemme, la durezza di cuore sempre più esplicita di avversari e discepoli, ma soprattutto la sua irrinunciabile fedeltà al primato dell’amore, gli rivelano sempre più aspramente la “sua” verità. E corrodono la “figura” fallace del Messia che la gente attendeva come profeta di gloria e potenza religiosa e politica, che doveva ricostituire finalmente il Regno di Israele. Sempre più lucidamente, invece, coglierà la perversione diabolica di questo miraggio, di conquistare il mondo al progetto del Padre con mezzi potenti, miracolosi e irresistibili. E gli nasce dentro la domanda lancinante i tutti i giusti: Sarà inevitabile la violenza contro il male, per poter instaurare un Regno di amore? Questa tentazione (la prima e l’ultima, la più tragica e irriducibile dell’uomo) si rivela come la vera alterativa antagonista, la più intelligente e subdola sul campo della dura logica della competizione: politica, economica, affettiva. Quella che ogni uomo, fin da bambino, impara e pratica per la propria sopravvivenza… per essere “qualcuno”. Quella che necessariamente fa abbandonare il debole per privilegiare chi ‘serve’ di più… Il potere è monopolistico! Non ammette concorrenti, e quindi si gioca sulla sottomissione di ogni altro contendente – per il primato, in una sfida che diventa sempre necessariamente spietata ed omicida.
Adora il Signore Dio tuo e lui solo servi vuol dire conquistare la libertà da ogni altro potere alternativo, per non sacrificargli mai nessuno. Vuol dire imparare ad amare Dio non perchè ti sostiene nei tuoi progetti, ma perché è lui il progetto di amore sul mondo. Affidarsi a questo Progetto, che non tollera piani di esecuzione che non siano amore e misericordia, porta Gesù ad immedesimarsi nel servo sofferente, condotto come pecora al macello, perché sulle sue spalle si abbattono i poteri minacciati dalla sua irriducibile disarmata verità, fino a dissanguarlo e ucciderlo. Quando la fine è imminente nessuno più oserà seguirlo su questa strada, e lo rinnegherà anche chi l’aveva confessato “Figlio di Dio” – Cefa, la pietra di fondazione della Chiesa … la quale non per niente patisce ancora oggi questa infezione di illudersi che il potere possa diventare strumento evangelico di libertà e di amore.
Anche il povero ”io umano” di Gesù una pulitissima e mitissima voglia di vivere!– quello che pregava il Padre di liberarlo da morte, ha sentito premere dentro di sé l’alternativa deviante (passi da me questo calice!). Ma ha scelto di mettere il suo destino nelle mani del Padre, pur sapendo che queste mani non l’avrebbero sostenuto dall’abisso. Ma proprio per la sua fedeltà al Padre (e ai suoi figli perduti), ha aperto la strada della nostra salvezza.

giovedì 7 febbraio 2008

Qual Dio alla luce del male?

In questa prima domenica di Quaresima, la scansione ordinaria del tempo liturgico è bruscamente interrotta dall’irrompere di letture che improvvisamente riportano la nostra attenzione su quello che forse è uno dei temi più scottanti e difficili per l’uomo (in particolare per l’uomo credente): il mistero del male.
Della realtà del male non c’è bisogno di convincere nessuno e tanto meno della sua complessità: essa possiede infatti articolazioni tali da arrivare a coprire tutto il campo umano (male fisico, male psichico, male morale… male subito, male inflitto… dolore colpevole, dolore innocente…).
Alla luce di questa evidenza fenomenologica, ciò che mi pare importante, è il tentare di istituire la questione in modo significativo, senza cadere in forme di nichilismo o sfiducia nel pensiero. E credo che il modo migliore per farlo sia proprio lasciarci istruire dal testo biblico stesso.
In questo senso, mi pare siano tre fondamentalmente le piste di indagine che emergono dalle letture:
1- Quando si parla di male, si parla di male radicale, ontologico. Non è in questione un errore, uno sbaglio, un’imperfezione, un limite; tutte cose che presuppongono una perfettibilità e quindi una risoluzione già umanamente possibile del problema. No! Il male di cui si parla nella Bibbia è quello che mette in discussione la realtà stessa del mondo, dell’uomo, di Dio, della mia interiorità;
2- Proprio per quanto appena detto, la questione del male mette immediatamente in campo la domanda su Dio: chi è Dio alla luce del male, di questo male? Con le tre proposizioni di epicurea memoria da far collimare:
- Dio è buono;
- Dio è onnipotente;
- il male esiste.
Con le varie combinazioni possibili: se Dio è buono e onnipotente, unde malum?; se Dio è onnipotente e il male esiste, Dio vuole il male? Non è buono?; e infine, se Dio è buono eppure il male esiste, forse che non sia onnipotente? Forse che il male sia più forte di Dio?
Tutte conclusioni evidentemente inaccettabile per la fede cristiana. Ma allora?
3- Beh… allora, il suggerimento delle letture è che la risposta alla domanda “quale Dio?” sia rintracciabile solo nell’attraversamento della drammatica umana di Gesù.

Riprendiamo con calma queste piste di indagine, cercando, a partire dal testo biblico e da qualche interlocutore privilegiato, di sondarne un po’ la profondità.
1- La radicalità del male: «dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti» (Gn 2,17). Già, nell’avvertimento del Signore si mostrava chiaramente che la portata del male non era accidentale, ma radicale. È quello che magistralmente Dostoevskij mostra in un passo de I fratelli Karamazov a proposito del dolore innocente, il paradigma più emblematico della radicalità del male:
«C'era una bambina di cinque anni, venuta in odio al padre e alla madre, persone rispettabilissime, di ottimo ceto sociale, ben educate e istruite. […] Quella povera bambina di cinque anni fu sottoposta a sevizie di ogni genere da parte dei colti genitori. La picchiavano, la frustavano, la prendevano a calci, senza motivo, sino a ridurle il corpo a un ammasso di lividi; alla fine, si spinsero a livelli di maggiore ricercatezza: la chiudevano per tutta la notte al freddo, al gelo di una latrina e, per punirla del fatto che lei non chiamava in tempo per fare i suoi bisogni, le insudiciavano la faccia con le sue feci e la costringevano a mangiare quelle feci, ed era la madre, la madre a costringerla! E quella madre era capace di continuare a dormire, quando di notte si udivano i lamenti della povera bambina, chiusa a chiave in quel lurido postaccio! Lo capisci questo, quando un piccolo esserino che non è ancora in grado di capire che cosa gli stanno facendo, si colpisce il petto straziato con il suo pugno piccino, al freddo e al gelo di quel lurido postaccio, e piange lacrimucce insanguinate, dolci, prive di risentimento al "buon Dio", perché lo difenda? La capisci questa assurdità, amico mio, fratello mio, pio e umile novizio di Dio, tu lo capisci a che scopo è stata creata questa assurdità, a che cosa serve? Senza di essa, dicono, l'uomo non avrebbe potuto esistere sulla terra, giacché non avrebbe conosciuto il bene e il male. Ma a che serve conoscere questo maledetto bene e male, se il prezzo da pagare è così alto? Infatti, tutto un mondo di conoscenza non vale le lacrime di quella bambina al suo "buon Dio"».
Queste parole atroci che attraversano l’anima di qualunque buon pensante, mettono in gioco proprio il peso ontologico del male: esso tocca le fondamenta stesse della vita, della possibilità della vita, della possibilità della mia vita. Qualsiasi riflessione sul male (e su Dio) deve allora rendere conto delle lacrime di quella bambina, che non possono rimanere un grido inascoltato che viaggia nell’universo.
2- E allora, alla luce del male, di questo male: chi è Dio? Chi è Dio di fronte a quelle lacrime? Di fronte a quella radicalità? Non possono certo essere accettati quei tentativi di risposta che evitano la posta in gioco, il peso ontologico della questione, la domanda su Dio! Vanno rifiutati approcci quali: il male come pedagogia di dio, il male come punizione di dio, il male come conto da pagare a una felicità postuma, il male come appagamento che dio chiede per la giustizia... Non c’è margine di compromesso su queste impostazioni. Esse mettono in campo un volto di dio che non è quello di Gesù.
E non ha senso l’apportare come giustificazione per conservarle il fatto che esse abitano la tradizione cristiana. Certo, le ritroviamo lungo tanta parte dell’arco del pensiero cristiano, ma esse vanno intese semplicemente come i tentativi storici di trovare ragionevolezza nel dramma della sofferenza umana e non possono essere elevate a verità!
3- L’unica via percorribile per affrontare a viso aperto la questione "qual Dio alla luce del male radicale?" è allora quella di seguire Gesù, il Figlio di Dio, nel suo lasciarsi scontrare dal male stesso, prendendolo sulla sua carne. È il tema del Vangelo di Matteo, che parla di questo inaspettato incontro del Cristo, con le tentazioni. Anche qui, mi pare, Dostoevskij abbia qualcosa da insegnarci sulla tragicità del dramma umano di Gesù, che lui tratteggia nel discorso del grande inquisitore:
«Lo spirito intelligente e terribile, lo spirito dell’autodistruzione e del non essere, il grande spirito, Ti parlò nel deserto, e nei libri ci è riferito come egli Ti avesse “tentato”. Ma si poteva mai dire qualcosa di piú vero di quanto egli Ti rivelò nelle tre domande che Tu respingesti e che nei libri sono dette “tentazioni”? […] In quelle tre domande infatti è come compendiata e predetta tutta la storia ulteriore dell’umanità, sono dati i tre archetipi in cui si concreteranno tutte le insolubili, contraddizioni storiche dell’umana natura su tutta la terra. […] “Decidi Tu stesso chi avesse ragione, se Tu o colui che allora T’interrogava. Ricordati la prima domanda: se non la lettera il senso era questo: “Tu vuoi andare e vai al mondo con le mani vuote, con non so quale promessa di una libertà! Vedi Tu invece queste pietre in questo nudo e infocato deserto? Mutale in pani e l’umanità sorgerà dietro a Te come un riconoscente e docile gregge, con l’eterna paura di vederti ritirare la Tua mano, e di rimanere senza i Tuoi pani”. Ma Tu non volesti privar l’uomo della libertà e respingesti l’invito, perché, cosí ragionasti, che libertà può mai esserci, se la ubbidienza è comprata coi pani? […] Acconsentendo al miracolo dei pani, Tu avresti dato una risposta all’universale ed eterna ansia umana, dell’uomo singolo come dell’intera umanità: “Davanti a chi inchinarsi?”. […] Tu conoscevi, Tu non potevi non conoscere questo fondamentale segreto della natura umana, ma Tu rifiutasti l’unica irrefragabile bandiera che Ti si offrisse per indurre tutti a inchinarsi senza discussione dinanzi a Te; la bandiera del pane terreno, e la rifiutasti in nome della libertà e del pane celeste. […] In questo Tu avevi ragione. Il segreto dell’esistenza umana infatti non sta soltanto nel vivere, ma in ciò per cui si vive. Senza un concetto sicuro del fine per cui deve vivere, l’uomo non acconsentirà a vivere e si sopprimerà piuttosto che restare sulla terra, anche se intorno a lui non ci fossero che pani. Questo è giusto, ma che cosa è avvenuto? Invece di impadronirti della libertà degli uomini. Tu l’hai ancora accresciuta! […] Ci sono sulla terra tre forze, tre sole forze capaci di vincere e conquistare per sempre la coscienza di questi deboli ribelli, per la felicità loro; queste forze sono: il miracolo, il mistero e l’autorità. Tu respingesti la prima, la seconda e la terza e desti cosí l’esempio. Lo spirito sapiente e terribile. Ti aveva posto sul culmine del tempio e Ti aveva detto: “Se vuoi sapere se Tu sei Figlio di Dio, gettati in basso, poiché di Lui è detto che gli angeli Lo sosterranno e Lo porteranno, ed Egli non cadrà e non si farà alcun male, e saprai allora se Tu sei il Figlio di Dio e proverai allora quale sia la Tua fede nel Padre Tuo”; ma Tu, udito ciò, respingesti l’offerta, non Ti lasciasti convincere e non Ti gettasti giú. […] Tu non scendesti dalla croce quando Ti si gridava, deridendoti e schernendoti: “Discendi dalla croce e crederemo che sei Tu”. Tu non scendesti, perché una volta di piú non volesti asservire l’uomo col miracolo, e avevi sete di fede libera, non fondata sul prodigio. Avevi sete di un amore libero, e non dei servili entusiasmi dello schiavo davanti alla potenza che l’ha per sempre riempito di terrore. […] Tu però già allora avresti potuto accettare la spada di Cesare. Perché ricusasti quest’ultimo dono? Accogliendo questo terzo consiglio dello spirito possente, Tu avresti compiuto tutto ciò che l’uomo cerca sulla terra, e cioè: a chi inchinarsi, a chi affidare la propria coscienza e in qual modo, infine, unirsi tutti in un formicaio indiscutibilmente comune e concorde, giacché il bisogno di unione universale è il terzo e l’ultimo tormento degli uomini».
Ma Gesù non accettò neanche l’ultimo dono del maligno… sintetizzando in questi suoi rifiuti la scelta di tutta una vita, sul suo modo di stare al mondo: affidandosi al Padre.
Notate bene: affidandosi al Padre non ad un dio impersonale. È dentro a questa relazione, reale e concretissima («Dopo aver congedato la folla, si ritirò in disparte sul monte a pregare. E, venuta la sera, se ne stava lassù tutto solo» Mt 14,23), in cui il Padre resta sempre un Tu, anche quando è invocato o bestemmiato nella disperazione («E, verso l'ora nona, Gesù gridò a gran voce: “Elì, Elì, lamà sabactàni?” cioè: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”» Mt 27,46), che Gesù si fida.
Forse il nostro problema più grande nell’affrontare il tema del male, del mondo come il nostro, è che presupponiamo sempre dio (impersonale e cosmico), il male (l’altra grande forza in campo) e noi (spettatori – vittime di una battaglia che talvolta ci investe). È lo stesso scenario che si presenta nel mito dei primogenitori, che parlano di dio sempre in terza persona, come il grande assente (dai loro cuori), fin quando sarà proprio lui –usando la II persona – a dire: «Adamo (= uomo) dove sei?» (Gn 3,9).
È questa domanda «dove sei?», che deve collocarci nel posto giusto per parlare di Dio e anche di Dio alla luce del male: è a partire dal mio rapporto con lui che quanto dirò smetterà di suonare come apologetico, falso, non sentito…
Quella a cui conformarsi allora è la collocazione di Cristo: che non ha evitato il male, non ha difeso dio, ma nella sua libertà, nel luogo cioè del suo esser-ci, del suo dire io, della sua presenza a se stesso ha incontrato il male, lasciandosene ferire fin dentro alle giunture più intime della carne e dello spirito, mantenendo però vivo quell’abbandono a quel Tu intimo e innamorato che conosceva come affidabile: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46).
È dal di dentro di questo rapporto, dal parlare con Dio più che dal parlare di Dio (come diceva santa Teresina) che si può affrontare il discorso sul male: solo lì infatti lo scacco che il male pone al mio esser-ci, alla mia libertà, alla mia umanità, è confrontato e vinto dalla fonte della Vita, del mio esser-ci, della mia libertà e della mia umanità.
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