Pagine

ATTENZIONE!


Ci è stato segnalato che alcuni link audio e/o video sono, come si dice in gergo, “morti”. Se insomma cliccate su un file e trovate che non sia più disponibile, vi preghiamo di segnalarcelo nei commenti al post interessato. Capite bene che ripassare tutto il blog per verificarlo, richiederebbe quel (troppo) tempo che non abbiamo… Se ci tenete quindi a riaverli: collaborate! Da parte nostra cercheremo di renderli di nuovo disponibili al più presto. Promesso! Grazie.

giovedì 29 novembre 2007

IL SENSO DELLA STORIA È LA VITA

Le tre letture di questa prima domenica di Avvento ci introducono in modo deciso nel tema dell’attesa, della venuta del giorno del Signore, della fine (non tanto del tempo quanto) di un tempo. Per quanto riguarda il testo di Isaia mi rifaccio a quanto esposto dal prof. Rota Scalabrini don Patrizio durante il corso sull’escatologia profetica nell’A.a. 2006-2007:
“Il brano di Isaia presenta un meraviglioso poema sul compimento della storia, visto come pace universale, concessa da Dio agli uomini. Il profeta alza il suo sguardo per vedere un futuro lontano, verso il quale si muove tutto il cammino dell’uomo: la presenza di YHWH, del potere legittimo, del suo insegnamento, giudizio ed ammonimento, tutto tende verso l’instaurazione della pace, opposta a tutta la tensione e al caos che possono essere causati da una ragione religiosa (gli idoli), politica (la mancanza di autorità legittima), etica (la corruzione legale), economica (l’aumento indiscriminato delle ricchezze), psico-sociale (le pretese di un gruppo di potere).
«Alla fine dei giorni»: ciò che il nostro testo CEI traduce con fine significa fondamentalmente quello che viene dopo in senso assoluto o relativo. Se quel dopo non ha ulteriore determinazione può significare allora in futuro in senso ampio. Altre volte può riferirsi alla conclusione di un arco di tempo determinato ed in molti di questi casi noi potremmo tradurre con allora. «I giorni» non indica solo la durata di 24 ore o una qualità di tempo (giorni del dolore, della vita, della morte), ma anche tempo corrente nel presente. L’espressione «alla fine dei giorni» si può quindi intendere come «nel corso del tempo, ad un certo punto».
Dopo l’introduzione temporale segue la pericope con tre assi semantici fondamentali:
1) quello del movimento;
2) quello della pace universale;
3) quello della parola che attrae.
1) La prima direzione del movimento è ‘centripeta’: gli uomini convergono verso un centro, tornano ad essere uniti, la lontananza da Dio viene superata e dimenticata.
Il centro del movimento è il monte della casa del Signore; questo significa che la presenza del Signore nel suo popolo è il punto di attrazione per tutte le genti, che affluiscono , “fiumeggiano”, verso il centro. Il movimento primo della storia è quindi quello che Dio stesso imprime ad essa, è questa forza, che esce da Sion (il luogo della presenza di YHWH), a far camminare i popoli; più precisamente questa forza di attrazione è la volontà di Dio rivelata nella Legge, manifestata dalla sua parola, che mette in movimento i popoli: «Poiché da Sion uscirà la Legge, da Gerusalemme la parola del Signore».
Altro movimento della storia è quello ascensionale: la storia dell’uomo è un cammino guidato da Dio per elevare l’uomo, per nobilitarlo.
2) Per Isaia la salvezza di Sion non è da intendersi come una salvezza nazionalistica, ma è la distruzione del potere del male e della guerra ed è perciò anche salvezza delle nazioni. La proposta di Isaia trova dunque la sua sintesi nella promessa della pace, vista come ultima finalità della parola di Dio. E questo è da intendersi in tutta la gamma di significati che il termine assume e non solo nell’accezione che ha il termine pace riferito ai rapporti internazionali, che pure qui è il significato primario.
Il futuro che Dio sta preparando agli uomini, il mondo che egli ha messo in serbo per loro, è un mondo pacificato: governo giusto, pace internazionale, disarmo, armi da guerra che diventano attrezzi agricoli e simboleggiano assai bene un nuovo ordine e la pienezza di beni, che Dio vuole accordare loro. I popoli non impareranno più a fare la guerra, perché l’insegnamento umano è la guerra, l’insegnamento di Dio la pace. La pace tra i popoli è frutto della presenza della Parola e della Tôràh. Si tratta infatti non solo di smettere di fare guerra, ma di trasformare strumenti di guerra in attrezzi di lavoro. Tutto questo è frutto dell’avere ascoltato l’insegnamento di YHWH.
3) I popoli non salgono al monte per un sacrificio, bensì per essere istruiti da Dio con la Legge e con la Parola. Ciò che le genti troveranno sulla montagna è la Parola e la Tôràh, che vengono loro incontro e che li attirano. L’espressione è da intendersi come volontà di YHWH di manifestare il suo piano di salvezza”.
Il poema di Isaia allora non è una banale previsione del futuro, ma è una lettura teologica della storia: essa ha il suo senso, il suo polo attrattivo nella parola del Signore, intesa in senso forte, non come un insieme di precetti, ma come la volontà del Signore, il suo sguardo benevolo sull’umanità. Tant’è che il secondo movimento della storia è quello ascensionale, della nobilitazione dell’uomo, della sua piena umanizzazione! Essa ha come scenario la pace, la fattiva trasformazione di ciò che insegna la logica umana (la guerra, la morte) in Vita!
È la stessa dinamica che mette in campo Paolo parlando ai Romani: «Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce»!
Ma con l’avvento di Cristo tutto quanto Isaia prefigura è inevitabilmente ritradotto in termini cristici, per cui per Paolo, la scoperta che il senso della storia è la Vita e non la morte, coincide con il fatto che il senso della storia è Gesù. È lui la Vita annunciata dai profeti. È quella vita lì che ha vissuto lui, quel suo modo di stare nel mondo, di passare per le strade, di fermarsi di fronte alle facce degli uomini e delle donne, di amare teneramente e tenacemente, di morire affidando e affidandosi, di offrire il suo corpo e il suo sangue… è quel suo modo lì di essere uomo e di essere Dio la Vita per l’umanità tutta e in essa per ciascun uomo!
Ecco perché Paolo non può che dire: «Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo»! Rivestirsi, con-morire, conformarsi, partecipare… sono tutte categorie che l’Apostolo mette in campo per portare avanti quella che secondo lui è la verità della storia: è nell’intrecciare la propria libertà (il nostro esser-ci) con la sua che il nostro esistere diventa Vivere!
In questo senso il Vangelo (il cui linguaggio non deve ingannarci -appunto è un linguaggio- e farci pensare a chissà quale terribile selezione divina) vuole mostrare l’urgenza e la radicalità del porsi nella Vita (o meglio nel lasciarsi porre in essa). La questione, come sempre nel Vangelo, non è morale, non si tratta di un’etica da rispettare, di un codice deontologico da seguire: in gioco c’è tutto quello che siamo, l’opzione fondamentale della nostra vita, l’orizzonte di senso che ci orienta… è una scelta di campo! La questione è chi sono io? Chi sono alla luce del fatto che tutta la storia della salvezza, attraverso le sue Scritture, riecheggia la testimonianza che c’è la possibilità della Vita, di una vita buona, bella, piena… Chi sono io di fronte al fatto che questa è la buona notizia della storia? Nella consapevolezza che ciò che sono, ciò che scelgo di essere lo costruisco in tutta una vita… vivendola, giocandomi nella praxis.
Ecco che a questo punto, ma solo a questo punto, tolto (si spera…) il germe moralistico, hanno senso anche le indicazioni pratiche sul vivere: «camminiamo nella luce del Signore», «è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce», «comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie», «rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri», «vegliate», «state pronti».

giovedì 22 novembre 2007

AUGURI A HERVE'

... che domenica scorsa ha compiuto gli anni...
... la regia chiede venia per la dimenticanza ...

:o)

QUALE DIO?

Raniero La Valle nel suo libro Prima che l’amore finisca. Testimoni per un’altra Storia possibile parlando di Carlo Carretto scrive:
«A mio parere egli ha posto con radicalità, nel cuore della società contemporanea e secolare, la questione di Dio, e più precisamente la questione: quale Dio. […] È su questo problema che si è costituita storicamente la società moderna, laica e secolare. La laicità non si è costituita sulla tesi Non est Deus, Dio non c’è, ma sull’ipotesi Etsi Deus non daretur, anche se Dio non ci fosse. […] E se la società moderna ha deciso di costruirsi come se Dio non ci fosse, l’ha fatto perché quello che le veniva offerto all’atto del suo sorgere era un Dio che non poteva più servire a fondare la sua unità e ad accogliere e accompagnare la sua crescita umana, la scoperta della sua ragione e le attuazioni della sua intraprendenza, ma anzi le era di ostacolo e di divisione. […] Un Dio – e da lui una Chiesa – non più capace di universalità, non capace di aprirsi all’accoglienza magnanima del nuovo che germinava nella storia».

Ma chi era questo Dio espulso? Prosegue La Valle:
«Era il Dio della guerra, il Dio che rendeva l’uno all’altro nemico, il Dio che veniva dall’alto, il Dio della trascendenza del potere, il Dio che fonda il trono dei potenti e sequestra i tesori dei deboli; era il Dio di cui la cultura moderna dirà che è la proiezione dei sogni di onnipotenza dell’uomo, e della cui trascendenza non un ateo, ma Dietrich Bonhoeffer dirà che non è vera, autentica esperienza di Dio, ma un “pezzo di mondo prolungato”».

È questo il Dio che arriva anche a Carlo Carretto e a tutti i cristiani prima del Concilio Vaticano II:
«è ancora il Dio della guerra, il Dio delle leggi assolute, il Dio che allarga le braccia ma non fino ad abbracciare il nemico, non fino ad essere annunziato e riconosciuto come il Dio della misericordia e del perdono. Un Dio nel quale non c’è speranza. E qual era quel Dio, tale era la Chiesa».

In proposito in una sua lettera a Wojtyla, Carretto scriverà, ricordando il preconcilio:
«Io 40 anni fa, figlio del mio tempo e degli errori del preconcilio, mi sentivo nella Chiesa come arroccato in una fortezza da difendere contro i nemici che mi circondavano da ogni parte; io vedevo la Chiesa come separata dal mondo, come un esercito perennemente lanciato in crociate, come un partito che doveva diventare più forte e schiacciare il nemico. Nemici, nemici, sempre nemici. Ecco il mio apostolato di quel tempo».

Questi testi, che forse lasciano un po’ sbigottiti per la trasparenza e la inusuale poca ossequiosità con cui tratteggiano, comunque realisticamente, un periodo storico ed ecclesiale, oltre a delineare quale Dio “viveva” nel preconcilio, mostrano come ci sia uno strettissimo legame tra immagine di Dio e immagine di Chiesa: «Qual era quel Dio, tale era la Chiesa».
Se si fallisce la prima, si fallisce anche la seconda!
Ma più radicalmente mi pare di poter dire, con Bruno Maggioni, che se si fallisce l’idea di Dio, si sbaglia tutto. È a partire da essa infatti (foss’anche l’idea del non esistere di Dio) che in qualche modo si determina il mio modo di concepire la vita, l’amore, l’altro, il lavoro, la comunità, il comportamento… tutto… È chi scelgo di porre come signore della mia vita che mi guida.
Ma allora, com’è possibile rintracciare il vero volto di Dio? E tracciarlo in modo che esso non cada sotto l’ombra del soggettivismo?

La Valle scrive:
«Carretto, attraverso la sua esperienza, arriva a porre la stessa domanda. Chiedersi “quale Dio” non significa cadere nel soggettivismo, negare l’oggettività di Dio. Dio non si esaurisce in una sola immagine, egli non è dato, totalmente dato, deve essere cercato. La stessa Bibbia è percorsa da diverse percezioni di Dio, e non tutte valgono allo stesso modo; ma l’una va presa e l’altra lasciata, man mano che Dio si fa più manifesto e man mano che cresce l’esperienza spirituale dei credenti. È per questo del resto che si parla di un “Dio di Gesù Cristo”».

Il Dio di Gesù Cristo… vediamo come ce lo presenta il testo di Lc 23,35-43, il Vangelo che la liturgia ci propone per questa domenica intitolata a Cristo Re. L’evangelista tratteggia molto bene qual è il Dio di Gesù Cristo, qual è questo Re. Lo ritroviamo infatti appeso a una croce, in mezzo a due malfattori, con «il popolo [che] stava a vedere» e «i capi [che lo] schernivano»; «anche i soldati lo schernivano» e «c’era anche una scritta sopra il suo capo: Questi è il re dei Giudei»; perfino «uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!».
Eccolo il Dio di Gesù Cristo… eccolo il nostro Re: non dice né fa niente, non scende dalla croce, non risponde a chi lo uccide, non tenta di spiegarsi…

Eppure, a un certo punto, quella bocca la apre!
E lo fa in risposta alle uniche parole umanizzanti che vengono pronunciate da chi lo circonda: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno».
Sono parole che hanno un’intonazione di riconoscimento (il “buon ladrone” è l’unico che chiama Gesù per nome) e di affidamento («ricordati di me»). E solo queste sono le parole che fanno reagire Gesù, finora inerme e silenzioso sulla croce. Allo scherno, alla derisione, all’incredulità non c’è risposta (mentre noi un qualche fulmine ce lo saremmo aspettato… sempre a proposito dell’immagine di Dio che abbiamo in testa…). La risposta arriva solo per le parole di riconoscimento, di affidamento… e per le parole dell’uomo sofferente (ricordiamoci che il “buon ladrone” è un uomo che muore e, come ci ha ricordato De Andrè, «un ladro non muore di meno»).
E anche la risposta di Gesù è una risposta umanizzante, una risposta di salvezza: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso». È come se questi due uomini, mentre muoiono si ricordassero a vicenda la propria identità: il “buon ladrone” ricorda a Gesù quale Dio è… e Gesù, che gli risponde introducendo le sue parole con una formula di identificazione forte ( “In verità ti dico” è appunto un’espressione del gergo personale di Gesù), gli ridona la sua umanità: «sarai con me».
Alla domanda “Quale Dio?” allora è necessario che rispondiamo: questo Dio. È a lui che dobbiamo dire, come fecero le tribù di Israele a Davide: «Noi ci consideriamo come tue ossa e tua carne».
È lui infatti, come ci racconta Paolo nella sua lettera ai Colossesi, che «ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce», è lui che «ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati», è per mezzo di lui che «tutte le cose sono state create», è a lui che piacque di «riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua crocee, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli».

Ma se tutto questo è vero e pure fonda la nostra vita, allora perché, a volte, alzando la testa a quella croce, mi viene da dire che io un Dio così non lo voglio? Perché un Dio così, conduce anche me su sulla croce…
E tutto di me si ribella a questo destino… tranne forse… due dita di bene che voglio ai miei fratelli.

Festa di Cristo Re

Gesù: il Dio crocifisso e risorto – servo e signore!
…è questo uno di quei misteri, anzi quello centrale, che il cristiano e la chiesa stessa, serbano in cuore con trepidazione e timore. Troppo facile da omogeneizzare, se li proponi come credenza fondamentale del credo cristiano; troppo paradossale e incredibile, se devi spiegarlo ad un amico ignaro; troppo affascinante e insieme "impossibile", se per noi – per me! – questo uomo è il maestro, il modello, il fratello, con il quale camminare verso il Padre, che proprio per questo lo ha mandato nel mondo. Era questo il "mistero nascosto" nel cuore di Dio per miliardi di anni: in Gesù di Nazareth, crocifisso, morto e risorto, abita tutta la pienezza della divinità "corporalmente" – carne come la nostra carne, materia della nostra materia… Non è una verità da sbandierare contro i miscredenti, come forse si tentava un tempo con la proclamazione di questa festa di Gesù Re dell'universo! È piuttosto da custodire in cuore e confidare come un segreto "arcano" (esplosivo e tossico!) perché ogni approccio culturale, religioso, amicale con qualunque compagno di strada sarebbe incrinato, se cominciassimo buttandogli in faccia… che questo crocifisso, appeso 2000 anni fa tra due ladroni, con unica distinzione un cartello ambiguo, con scritto su "re dei giudei" – proprio questo, è "il vangelo": cioè la bella notizia essenziale della nostra fede, su cui noi fondiamo non solo la vita, ma la speranza di salvezza del mondo. Perché dopo tre giorni è risorto. Se ormai l'usura della consuetudine non avesse svuotato le parole, ci risponderebbero come a Paolo: Su questo ti ascolteremo un'altra volta! E invece, questa è la sintesi di tutto il ciclo liturgico, perchè il resto di cui possiamo agevolmente parlare con tutti, è contorno, tutto il resto è mediazione culturale su cui ricercare continuamente ulteriori approfondimenti e ogni possibile convergenza, se non mette in discussione o cerca di censurare questo dato fondante, che il nostro Dio è passato attraverso questo annichilimento.

Tra fascino e rifiuto – attrazione e aggressività omicida
Tutto il Vangelo di Luca era già cominciato così, con questo dilemma tra fascino e rifiuto, fin dalla prima "predica", a Nazareth, profeta neofita, quando: "insegnava nelle loro sinagoghe glorificato da tutti (4,15) e subito dopo: tutti erano pieni di furore nella sinagoga ascoltando queste cose (4,28). Ammirati dunque, delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca, e pronti subito ucciderlo… Questa spada di contraddizione gli ha scavato il cuore lungo tutto il cammino della vita, e Gesù stesso se ne lamenta, con i parenti, con quanti lo seguono e sono beneficiati da lui, con i discepoli più cari, - entusiasti, ma pronti tutti a rinnegarlo, salvo le donne!
Dove arriva Gesù, arriva pure una specie di resistenza cieca e suicida, come testimonia il prologo dell'ultimo dei vangeli: "In lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta… Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe" (Gv 1,4ss). Già nella trasfigurazione Gesù fu presentato come l'Eletto di Dio, che il Padre ha scelto per salvare il suo popolo, a cominciare da gli esclusi, i maledetti, i prigionieri… dei quali prende su di sé il peccato e l'oppressione, come il servo di Isaia - Eletto da Dio , ma incompreso o reietto dagli uomini. Un mistero tanto accecante che Gesù stesso raccomanda di tenerlo segreto… fino alla risurrezione.
Il viaggio a Gerusalemme…
ecco dove portava la strada lunga e stretta che dalla Galilea e Samaria porta a Gerusalemme. Gesù l'ha percorsa coi suoi discepoli e tanta gente, come insegnamento, testimonianza, compagnia… di sentimenti parole opere, per comunicare il suo mistero. Guarendo, evangelizzando e facendo del bene dovunque attorno a sé. Sempre più solo in questa scelta obbligata dell'amore. Se ti fai disponibile, l'altro, affamato, ti mangia! Gesù prevede e preannuncia come andrà a finire. Soffre per la struggente amarezza che nessuno s'accorge di cosa sta succedendo. Arrivati ormai ad una destinazione senza ritorno… piange sulla città e cerca di premunire i discepoli. Inventa una nuova cena pasquale, ove riproduce, come in un dramma profetico, ciò che sta succedendo: si dà da mangiare agli apostoli, per tutti, preoccupati delle sue strane parole, ignari e tristi… Quando li chiama apertamente a vegliare con lui in questa vigilia che lo scarnifica… loro s'addormentano. ancor oggi gli amici/sudditi di questo strano signore dell'universo… non riescono ad assistere alla sventura di chi è tanto signore di sé che, pur capace di salvarsi, per salvare noi si lascia opprimere e uccidere. Tutti giriamo la testa dall'altra parte, di fronte al suo invito angoscioso "Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione» (22,46).
salvatore incapace di salvarsi
Tutto il racconto della passione di Luca è ritmato sul ritornello che mette a nudo il dramma di Gesù morente, il motivo tragico sia della sua suprema dignità regale (salva chiunque si affida a lui!)e insieme della umiliazione con cui lo schiaccia il convergere di tutti poteri e le paure contro di lui, innocente e inerme (è incapace di salvare se stesso!). C'è uno scambio di destini tragico e impensabile tra il re e il terrorista: Pilato infatti voleva rilasciarlo, ma siccome "le loro grida aumentavano… allora decise che la loro richiesta fosse eseguita. Rilasciò colui che era stato messo in carcere per sommossa e omicidio e che essi richiedevano, e abbandonò Gesù alla loro volontà" (23,23). Esplode così il mistero del male, che rifiuta e uccide la propria salvezza: "…mentre il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: «Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto». Anche i soldati lo schernivano, e gli si accostavano per porgergli dell'aceto, e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso» …Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!».
sulla cima del calvario
…comincia a vedersi l'altro versante della storia. Già sulla croce Gesù è re, anche se inchiodato ad un trono maledetto. E anticipa il suo potere regale: come primo atto chiama tra i suoi, all'inaugurazione del suo Regno, un delinquente che muore lì vicino lui. Allora era vero quanto profetizzato fin dall'inizio del Vangelo, in quel luogo pianeggiante, dove mentre la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti – lui annunciava paradossi incredibili: "guai!" cioè sono molto lontani da Dio quelli che stanno bene, se la ridono e mangiano e bevono quanto vogliono. E che erano invece incredibilmente "benedetti", cioè graditi a Dio i poveri, affamati, piangenti perseguitati… svuotati insomma di ogni umanità… Perché costoro finiscono prima o poi come lui, crocifissi, ma entrano pure con lui nel Regno. La vita gli ha scavato sulla pelle il suo timbro regale: è tutta gente che è stata mangiata dagli altri perché impotenti a farsi giustizia da sé… Con questo primo cittadino del nuovo regno si apre una storia completamente nuova. Lo slogan di questo Regno vale per chiunque ci vuole entrare, anche se l'hanno inventato per scherno tragico i capi del popolo; ha salvato gli altri e non può salvare se stesso. Che è l'eucaristia! I discepoli all'ultima cena non l'avevano capito. Ma questi teologi raffinati, sotto la croce lo capiscono bene… e inorridiscono!
Di fronte alla croce si aprono per tutti le due strade, le due alternative che ci sono dentro ogni uomo. I due delinquenti ci raffigurano tutti, e ci fanno rivivere il dilemma della fede che tutta la vita ci tormenta, di fronte a Gesù. Una voce dentro di noi, che grida nella disperazione (quante volte!) «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!». Mentre l'agonia profetica dell'altro delinquente, stranamente trasformato dalla dignità sovrumana di Gesù e fiducioso di poter essere accolto da lui, geme pure dentro di noi: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno».
Non esiste un potere che non versi il sangue dei suoi soggetti, per mantenersi, perché sarebbe subito perdente! Il potere (allora dicevano 'la regalità'!) è omicida per costituzione intrinseca. L'unica regalità che quando si afferma fa vincere il vinto è l'amore, ma deve essere appunto "più forte della morte". Questo ha visto il ladrone in Gesù morente: questa testimonianza inerme l' vinto, lui che aveva fatto della violenza l'unica risorsa della vita. È lui che fa re Gesù!
È finito il viaggio verso Gerusalemme. Il nostro Re (servo e signore!) ha rivelato il segreto della sua missione e ci propone di entrare, già di qua tra i suoi seguaci, in questo suo Regno: chi vuole seguirlo?

¨

Amare è fare spazio dentro di sé a costo di…

Non esercitare tutto il potere di cui uno dispone, vuol dire sopportare il vuoto. Questo è contro tutte le leggi di natura: solo la grazia lo può fare! La grazia riempie, ma non può entrare che là dove non c'è il vuoto per riceverla, ed è essa che fa questo vuoto.
C'è la necessità di una ricompensa – ricevere l'equivalente di ciò che uno dà. Facendo violenza a questa necessità, si può lasciare un vuoto, si ha come un vuoto d'aria, e allora arriva una ricompensa soprannaturale. Non viene, se c'è già un altro salario: è il vuoto che la fa venire.
Allo stesso modo per la remissione dei debiti (e questo non riguarda solo il male che gli altri ci hanno fatto, ma il bene che si è fatto a loro). Anche lì si accetta un vuoto dentro noi stessi.
Accettare un vuoto dentro noi stessi, questo è soprannaturale. Dove trovare l'energia per un atto soprannaturale? L'energia deve venire da fuori. Ci vuole però uno strappo, qualcosa di disperato, perché si cominci a produrre un vuoto. Vuoto: notte oscura!
Amare la verità significa sopportare il vuoto, e di conseguenza accettare la morte. La verità è dalla parte della morte. L'uomo sfugge alle leggi del mondo solo la durata di un baleno. Un istante di sospensione, di contemplazione, d'intuizione pura, di vuoto mentale, di accettazione del vuoto morale. In questo istante è capace di soprannaturale. Chi per un momento sopporta il vuoto, o riceve il pane soprannaturale o cade. Rischio terribile, ma bisogna correrlo… e anche un momento senza speranza. E non bisogna però gettarvisi!
Lui… si è svuotato della sua divinità. Si è svuotato anche del mondo, ha rivestito la natura di uno schiavo… ridursi a un punto sperso nello spazio e nel tempo. A nulla. Spogliarsi della regalità immaginaria del mondo. Solitudine assoluta. Allora si ha la verità del mondo.
[Simone Weil, La pesanteur et la grâce, ed. Plon, pg. 18s]

¨

In Cristo abita corporalmente tutta la pienezza della divinità:

L'avventura umana di Dio: fare spazio all'umanità è morire e risorgere:




venerdì 16 novembre 2007

VOGLIO SOLO ESSERE QUELLA CHE IN ME CHIEDE DI SVILUPPARSI PIENAMENTE

Le letture di questa domenica hanno tutte come punto di riferimento il giorno del Signore, con la sua valenza escatologica: il libro del profeta Malachia ci parla del «giorno rovente come un forno» che sta per venire, Paolo ai Tessalonicesi se la prende con coloro che a causa di questo atteso ritorno «vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione» e Gesù stesso nel Vangelo di Luca riferisce di una «fine».
Essa immediatamente fa risuonare in noi note arcaiche, di paura e grandiosità, di terrore e fragore... Ma se proviamo a lasciare il rimando emotivo immediato, sedimentato dai secoli di storia religioso-affettiva da cui proveniamo, e guardiamo da vicino i testi, scopriamo che l’accento cade su tutt’altri toni.
Malachia infatti, tentando una descrizione di «quel giorno», sottolinea come esso svelerà la realtà di ciascuno:
- da un lato l’inconsistenza di «tutti i superbi e [di] tutti coloro che commettono ingiustizia», raffigurata dall’immagine della paglia incendiata;
- dall’altro il rilucere della consistenza di chi ha costruito la vita come «cultore» del nome del Signore, di chi, in altre parole, l’ha riconosciuto Signore della sua vita.
Mi pare che la prospettiva non sia quella, così automatica in noi, ma tanto riduttiva, di una divisione tra buoni e cattivi, giusti e ingiusti. Qui si parla della consistenza della vita, del fondamento su cui la si è posta, della realizzazione di quello che dovevamo essere (figli)... in gioco non ci sono aspetti secondari, sovrastrutture della nostra vita, ma la Vita stessa, accolta («per voi invece cultori nel mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia») o rifiutata per vivere di se stessi («superbi») sopraffacendo gli altri («coloro che commettono ingiustizia»).
È dunque sull’orizzonte di senso della nostra vita che la liturgia di oggi ci richiama l’attenzione. Anche le parole di Gesù secondo Luca hanno questa valenza: non si sta facendo una previsione sulla distruzione del tempio di Gerusalemme, sul ritorno di Cristo risorto, sulla fine del mondo. Il punto prospettico lo si trova alla fine: «con la vostra perseveranza salverete le vostre ψυχας». La CEI traduce quest’ultima parola con anime, ma noi preferiamo lasciare il termine greco che è meno compromesso. Esso infatti compare circa 800 volte nella Bibbia e spesso è tradotto con vita, persona. È inteso come ciò che indica la sede delle passioni, dei sentimenti, delle emozioni: ψυχη, allora ha uno spettro semantico molto più ampio di quello che la parola anima ha ormai assunto nel gergo comune, ed indica la personalità di ognuno.
La prospettiva di Gesù è dunque anch’essa decisiva, sta parlando della salvezza della singolarità di ciascuno, che Etty Hillesum descriverebbe così: «voglio solo cercare di essere quella che in me chiede di svilupparsi pienamente».
Per far questo, per salvare le nostre ψυχας, per cercare di essere quello che in noi chiede di svilupparsi pienamente, Gesù indica decisamente la via dell’“impastarsi” nella storia, anzi, meglio, nella drammatica della storia: «di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta», «sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni», «si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno, e vi saranno di luogo in luogo terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandi dal cielo». È una drammatica che appunto non resta – e non deve restare – tangente rispetto al discepolo, ma lo incrocia e tocca nell’intimo: «metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e a governatori», «sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e metteranno a morte alcuni di voi; sarete odiati da tutti per causa del mio nome».
Per abitare la tragicità di questa storia – unico luogo per la salvezza delle nostre anime, per la costruzione della consistenza delle nostre ψυχας – il Signore dà pochi ma sostanziali punti di riferimento:
1. «Guardate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno sotto il mio nome dicendo: "Sono io" e: "Il tempo è prossimo"; non seguiteli». Non c’è un’altra via di salvezza che non sia quella cristica, la sua! La durezza della storia, la sua difficile intelligibilità, il frastornamento che ci provoca, il non senso che spesso ci rimanda, non devono arrivare a inquinare il nostro dar credito al Dio di Gesù. Ogni altra strada, che non sia la sua, è inevitabilmente illusoria perché parte dall’uomo, anzi, peggio, dalla sua paura di morire. E infatti la seconda parola che Gesù in questo brano pone sulla drammatica della storia è:
2. «non vi terrorizzate», non lasciate cioè che a determinare la vostra vita, le vostre scelte, il vostro impegnarvi o meno, il vostro amare o meno, le vostre ψυχας, sia il terrore. Esso è solo mortifero: blocca gli zampilli di vita, chiude gli spiragli di luce, immobilizza il desiderio di appassionarsi, indurisce il cuore, spegne il sorriso…
Ma sulla base di che cosa possiamo Vivere e non morire nel terrore? Perché, dice Gesù:
3. «nemmeno un capello del vostro capo perirà». Ciò che fonda la possibilità della Vita è l’assicurazione di una cura, di una presenza, di una vicinanza, di un intreccio con la libertà di Dio!
È quanto anche Paolo ribadisce nella sua esortazione finale: «a questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace». Nel Signore Gesù Cristo è possibile vivere nella pace del cuore, costruendo dentro a questa storia la nostra evangelica singolarità!
In questo senso mi piace terminare queste riflessioni con un pezzetto del diario di Etty Hillesum, capitatomi tra le mani per caso, che però mi pare una bella risposta da dare a queste letture:

«Mio Dio, prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto e nel modo migliore. Ma concedimi di tanto in tanto un breve momento di pace. Non penserò più, nella mia ingenuità, che un simile momento debba durare in eterno, saprò anche accettare l’irrequietezza e la lotta. Il calore e la sicurezza mi piacciono, ma non mi ribellerò se mi toccherà stare un po’ al freddo, purché tu mi tenga per mano. Andrò dappertutto allora, e cercherò di non aver paura. E dovunque mi troverò, io cercherò d’irraggiare un po’ di quell’amore, di quel vero amore per gli uomini che mi porto dentro. Ma non devo neppure vantarmi di questo “amore”. Non so se lo possiedo. Non voglio essere niente di così speciale, voglio solo cercare di essere quella che in me chiede di svilupparsi pienamente. A volte credo di desiderare l’isolamento di un chiostro. Ma dovrò realizzarmi tra gli uomini, e in questo mondo. E lo farò, malgrado la stanchezza e il senso di ribellione che ogni tanto mi prendono. Prometto di vivere questa vita sino in fondo».

giovedì 15 novembre 2007

Le pietre crollano, distrutte dall’odio. L’amore resta!

Quando il viaggio verso Gerusalemme arriva alla fine,
…il profeta pellegrino, partito facendosi la faccia dura (9,51), per resistere ad ogni ostacolo e tentazione, alla vista della città, finisce in pianto, per l’impotenza di non potere salvare la sua città dalla distruzione: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace. Ma ormai è nascosta ai tuoi occhi…. proprio perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata” (19,41s). La Chiesa rilegge le profezie tragiche del Signore sulla distruzione del tempio, con tutte le sue decorazioni e rifiniture, … e sulla sofferenza e lo stermino di tanta gente del popolo, con carestie, malattie, torture … E nasce nei discepoli sbigottiti l’eterna domanda dell’uomo nella sventura: ma allora quando il Regno? Gesù non risponde, e attira invece la loro attenzione sul “prima” della fine, perché è questo il momento della nostra responsabilità: il tempo in cui siamo visitati - e anche noi, come Gerusalemme e i suoi abitanti, rischiamo di non accorgerci del passaggio del Signore. Marco, prima che le cose avvengano, dice ai cristiani della prima generazione come attenderlo, in quei frangenti tragici. Luca, dopo che quelle cose sono già avvenute, dice alla seconda generazione e a tutti noi … come attenderlo sempre, in ogni tornante della storia, finché il Signore arriva.
La tragedia dell’uomo, di ogni tempo, balza agli occhi, e sembra senza speranza
…ma non è questa la fine! – non subito! La vita prosegue, il bene nasce solo dall’impasto ambiguo che è la storia degli uomini e il cuore di ognuno. Come in un crogiolo si distinguono i metalli dalla melma nella quali sono contenuti, è in questa nostra storia, che si apre la possibilità di separare ciò che è promessa vera di futuro, dalle radici infestanti e dai germogli mortiferi: quel giorno (ogni giorno, alla luce della Parola!) venendo, li incendierà dice il Signore degli eserciti, in modo da non lasciar loro né radice né germoglio. L’espressione semitica, come talora la passione educativa, non dà tanto spazio alle cause seconde, quindi sembra Dio stesso che personalmente intervenga nella storia per punire. Ma come è stato per Gerusalemme, è il cuore degli uomini, che si chiude alla pace, per darsi a progetti di prepotenza e ingiustizia. Ma, reagendo alla violenza con altrettanta violenza, tutto si consumerà come la paglia nel fuoco, perché non ha né consistenza né avvenire. Lo sguardo del profeta vede il futuro dentro gli eventi, nel presente davanti a lui, e lo annuncia come lo sguardo di Dio: uno sguardo che penetra la verità delle cose e ne coglie lo svolgimento, la dinamica interna e quindi la destinazione…
Non per questo, Dio abbandona la storia degli uomini:
“l’apocalisse”, il disvelamento, lo sguardo smagato, che non si lascia ammaliare dalle parole e dai trionfi effimeri, ma legge nel profondo la verità degli eventi, non è per spaventare o deprimere l’uomo. È provocazione alla conversione, piuttosto che un annuncio di sventura. La quale invece incombe, se l’uomo non presta ascolto alla Parola, che è venuta ad annunciare a noi che il tempo è vicino e il Regno è già in mezzo a noi. Non c’è nessuna speranza dalla forza dell’uomo, che è incapace di salvarsi, perché nel suo cuore prevale l’ingiustizia, cioè l’affermazione si sé, ad ogni costo! Perciò nessuna delle costruzioni umane, di cui siamo orgogliosi, rimarrà in piedi, né materiali né mentali, né affettive. Neanche quelle che ci sembrano più sacre, i templi e le teologie …o le mamme che allattano i piccoli. Niente resiste alla consunzione che sta divorando l’universo e il minuscolo abitante pensante di questo pianeta … Il quale, per un perverso masochismo della specie, sta aumentando da se stesso la sofferenza della sua razza e l’inquinamento della sua casa, invece che cercare alternative di salvezza.
Ma non c’è uscita da questa atroce universale sofferenza?
…guardate bene di non lasciarvi ingannare, perché molti verranno in mio nome, dicendo “ecco, sono io!” “è arrivato il momento”… Non andate dietro a loro. bisogna che queste cose avvengano prima! È come la formula della passione del Figlio dell’uomo: prima “bisogna” passare attraverso la sofferenza…! E chi propone miraggi diversi, per salvaguardarsi dalla sofferenza comune della gente e ritagliarsi un rifugio per la salvezza in proprio (magari abusando del mio nome!), non seguitelo, vi imbroglia! Dunque il male e la sofferenza non sono la punizione dei misfatti che ricade su di noi dopo averli fatti, sono piuttosto la nostra condizione storica “prima” della fine - cioè adesso, perché possiamo capire … aprire la mente e il cuore! “Dopo”, c’è solo la manifestazione del Signore. Quando verrà lui, non ci saranno più dubbi né ripentimenti: …allora vedranno il Figlio dell’uomo venire in una nube con potenza e gloria grande! (27). La sofferenza e la sventura sono dunque il necessario fuoco del crogiolo del bene? Non si può dire salvezza, se non passando nel fuoco della “passione”?
L’odio è dentro nell’impasto originario dell’umanità… “prima”!
“l’oggetto nasce dall’odio”, diceva nel suo linguaggio mitico e fascinoso Freud, per dire l’importanza fondamentale, nella preistoria del processo psichico, del contrapporsi all’altro, per individuarlo come oggetto da controllare e possedere, fin dall’inizio della vita (simbolicamente, a cominciare dalla madre). Lì amore e odio (cioè il bisogno di possedere e fondersi e la voglia di distanziarsi, per affermare la propria identità) sono ancora informi, ma preparano il magma della storia tragica dell’amore e dell’odio tra gli uomini. Cioè l’odio sta al fondo del processo psichico nella scoperta stessa della relazione, a iniziare dal trauma della separazione, rifiuto, espulsione da sé. Questo rigetto di difesa, odio primitivo e cieco, a guardare la storia dell’individuo come della sua tribù… è “necessario” alla costituzione del soggetto, personale e sociale, e ne garantisce l’autoconservazione, assicurando, con questa presa di distanza, la permanenza dell’oggetto rifiutato, in un rapporto drammatico di attrazione e rifiuto.
Il mistero del male è originario,
Questo conflitto doloroso non è semplicemente radicato nel cuore dell’uomo, ma lo ha accompagnato nel formarsi della sua psiche, tanto che ci portiamo dentro irrimediabilmente questa dialettica tragica, contro cui tutte le religioni e le filosofie e le morali si sono scontrate, senza trovare risposta esauriente. “Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che io odio” (Rom 7,15). L’amore, che pure è la fame della nostra vita, non ci si è accessibile se non attraverso questa mistura ambigua di desiderio e di rifiuto, di affetto e di rabbia… cui spesso il linguaggio biblico ricorre, per segnare i passi importanti del cammino (vocazione) umano, con attrazioni e repulsioni violente, tra Dio stesso e l’uomo. tra Adamo ed Eva, l’uomo e la terra, Abele e Caino… L’uomo dovrà strapparsi da suo padre e sua madre, per costituire una nuova famiglia…lottare sempre, fino al Diluvio, quando Dio sembra volersi sottrarre a questa guerra santa, schierandosi definitivamente per la pace…
Sulla croce Cristo ha ucciso l’odio. Ma l’arcobaleno rimane disegnato in cielo, mentre sulla terra continua la tensione violenta che obbliga a scelte di amore / odio… fino a Gesù: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo”. Fino ai martiri dell’odio, che per amore l’assorbono su di sé , da Abele fino ad… oggi: in un cammino crudele e non senza rigurgiti, se i Maccabei o, nei primi secoli, alcuni martiri morivano maledicendo i torturatori e augurando loro l’inferno… nonostante l’esempio in contrario di Gesù e del protomartire Stefano! Di questo radicale dramma umano il Nuovo Testamento fa la chiave di interpretazione della salvezza: “Cristo infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’odio, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, Cristo ha riconciliato con Dio gli uni e gli altri in un sol corpo, attraverso la croce: su questa egli ha ucciso l’odio” (Ef 2,15s).
Sarete odiati da tutti per causa del mio nome
…Anche il discepolo, attirerà l’odio su di sé: perché? L’amore è rifiutato. Qualcosa di troppo grande e irrimediabile ci sfugge… Gesù ha pianto (19,41), e l’ira del rifiuto gli scoppierà, da dentro, subito dopo, nel tempio profanato! Colui che è stato mandato a salvarci, è impotente di fronte al rigetto e all’odio. C’è qualcosa che non può salvarsi? se no, perché piangere? forse comunque il peso è troppo grande per un uomo! sia pure figlio di Dio. Nel profondo di questo mistero c’è qualcosa che non riusciamo a gestire: è di un altro ordine, fuori del nostro potere, un nodo dove si è inchiodati senza difesa alla contrapposizione distruttiva.. Non c’è che consegnarsi all’odio assurdo, senza esserne avvelenati, per amore. È lì dove Gesù ha ucciso l’odio, prendendolo su di sé e perdonando i suoi persecutori. Lì Qualcuno ci attende per proteggerci e custodirci totalmente (neppure un capello del vostro capo perirà)! Per resistere in questa attesa bisogna prendere tempo, ritrovare nelle Scritture e nell’eucaristia fraterna la speranza operosa che dà senso ancora al credere: … nella vostra pazienza guadagnerete le vostre anime!

~~~~~~~~
PADRE,
io ti amo più di tutto.
Anzitutto perché tu sei colui che può dire “io sono”
e averti incontrato nei miei 16 o 17 anni, fa sì che adesso, a 93 anni,
io ne vivo.
io ti amo più di tutto,
perché:
– all’uomo, che lungo il corso dell’evoluzione non smette di volersi sufficiente,
tu doni Gesù il Verbo, per provare che l’uomo è non-sufficiente;
– mentre noi ci ostiniamo a volere delle cifre, tu ci dai l’invisibile,
che si fa più forte del dubbio, nell’Ostia dell’Eucaristia;
– all’atmosfera soffocante tu sostituisci il soffio, spiritus, dello Spirito Santo
che nasce dall’unione del Padre e del Verbo che si amano, ed nei quali noi ci immergiamo.

Sì, tu sei il mio amore.
Io non sopporto di vivere così a lungo, se non per questa certezza che è in me:
morire, che lo si creda o no, è … Incontro!
io ti amo più di tutto.
Sì, ma per essere un credente credibile, bisogna che tutti attorno a me sappiano
che io non accetto, che non potrò mai accettare, la permanenza del male.
‘Essere’, tu sei padrone del permanere o del cessare di tutto ciò che è.
Visto che hai questo potere di farlo cessare, come è possibile che il male sussista?
La preghiera di Gesù non culmina proprio nel “Liberaci dal male”?

Grazie, Padre, di aiutarmi a rifiutare, che sarebbe un imbroglio, di “credere” … come
se io fossi indifferente alla perpetuazione del male, in questo mondo e nell’al di là del tempo.
Credente, amante… io non posso non essere che questo
credente nonostante che…
cioè questo credente che non capisce!
Troppi dei miei fratelli uomini restano sulla soglia di amarti,
frastornati dalla necessità di questo “nonostante che…”.
Pietà per loro e pietà per l’Universo.
Padre, è così tanto tempo che aspetto di vivere nella tua totale presenza,
io non ne ho mai dubitato,
presenza che è, nonostante tutto, amore.

4 ottobre 2005 - festa di S. Francesco d’Assisi - (Abbé Pierre, Mon Dieu… pourquoi?, ed Plon)
[brano letto ai funerali, a Parigi, il giorno 26 gennaio 2006]

martedì 13 novembre 2007

La laicità tra verità e carità

Mi è parso interessante questo intervento, molto più ampio e di cui vi propongo una parte, che Gustavo Zagrebelsky ha fatto in un convegno ad Assisi. Lo ritengo adatto ad essere declinato anche come analisi di dialettiche comunitarie molto più ridotte di quelle che possono invece riguardare una intera comunità, nazionale od internazionale. Certo il relatore chiama in causa e analizza il macrosistema “politica”, non ci deve però sfuggire come la citazione finale, di questa sezione del discorso, sia la “A Diogneto” che per sua natura è indirizzata al cammino di ognuno di noi uomini, anzi, anche se per pura esigenza letteraria, è costruita “ad Hoc” come risposta a delle questioni sollevate proprio da un uomo interrogato dalla storia che viveva.

Religione della verità o religione della carità

L’utilità o la pericolosità della religione come rimedio contro le tendenze sociali autodisgregatrici dipende forse anche dalla sua autocomprensione, cioè come concepiamo la religione, come gli uomini di fede concepiscono il vivere la fede. E qui il dilemma è tra religione come religione della verità, e religione come religione della carità. Il dilemma è particolarmente vivo per il cristianesimo, nato originariamente nelle prime piccole comunità come religione della carità: il discorso evangelico della montagna, e i primi due comandamenti. Il Cristo interrogato su quali fossero i comandamenti basilari non afferma una dottrina, dice “amerai il Signore Dio tuo con tutta la tua forza, con tutto il tuo cuore e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso”. E in origine la Verità – io sono la via, la verità, la vita – era non un complesso di proposizioni teologiche, e tantomeno teologico-politiche, e ancor meno verità sociali o scientifiche. La verità del Cristo era la confessione del Cristo figlio di Dio. La confessione di Gesù il Cristo. Questa era tutta la verità nelle prime comunità cristiane (...). Progressivamente però il cristianesimo è venuto istituzionalizzandosi come religione della verità, capace, attraverso l’uni-formità di un apparato dogmatico, teorico e organizzativo sempre più complesso, di tenere insieme vaste comunità di credenti, in rapporti di vario tipo – conflittuale o di cooperazione – con il potere politico. (...). Le due concezioni del legame comunitario, carità-verità, coesistono dialetticamente e la loro tensione rappresenta uno dei fili conduttori della storia della Chiesa nei secoli. Ora, la questione che mi sembra da porre è se questa distinzione verità-carità sia rilevante nella discussione circa il valore della religione, in particolare di quella cristiana, come tessuto connettivo della vita sociale. L’ipotesi da considerare è se non sia propriamente l’odierna insistenza sulla verità l’elemento che nelle società pluraliste attuali crea divisioni e conflitti. Mentre le cose andrebbero all’opposto se l’accento cadesse sulla carità, capace - essa sì - di creare solidarietà, legami e convergenze non solo tra cristiani, ma anche tra cristiani e non cristiani. È scritto nella Lettera a Diogneto: “La scienza gonfia, la carità, invece, edifica. Chi crede di sapere qualche cosa, senza la vera scienza testimoniata dalla vita, non sa nulla: viene ingannato dal serpente, non avendo amato la vita”. In breve c’è qui in nuce la contrapposizione tra l’arroganza della verità e l’umiltà della carità. La prima, a dispetto di tutte le proclamazioni in contrario, cerca la potenza, il potere; la seconda, la carità, ne rifugge. Ed essendo il potere essenzialmente conflitto, competizione, e qualche volta perfino sopraffazione, si comprende facilmente come ogni religione della verità corra il rischio di alimentare tutto questo.

domenica 11 novembre 2007

FIDUCIA E FEDE


Da "I racconti dei Chassidim" di Martin Buber.

"Avviene talvolta", diceva il Baalshem, "che si è turbati nella propria fede in Dio. Il rimedio contro questo è di pregare Dio di rafforzare la fede in noi. Ché il vero male che Amalek arrecò a Israele fu che con il suo fortunato assalto fece raffreddare la loro fede in Dio. Perciò Mosè, con le mani tese al cielo, che erano come la fiducia e la fede stesse, insegnò loro a pregare Dio che li rafforzasse nella loro fede, e questo solo è ciò che importa nella battaglia contro la potenza del male".

venerdì 9 novembre 2007

CHI SONO IO, PER DOVER MORIRE?

Non è facile entrare nel tema della liturgia che la Chiesa ci propone per questa XXXII domenica del tempo ordinario… Essa infatti, sotto vari profili, mette in campo la questione del morire… questione che immediatamente pare ridurre l’uomo al silenzio.
È vero che, ad una prima lettura, i testi sembrano di fatto concentrarsi più sulla risurrezione che sulla morte, ma queste due realtà mi paiono così inestricabilmente intrecciate che il parlare di una, inevitabilmente, porta anche a parlare dell’altra. Anche perché entrambe, in fin dei conti, pongono la domanda radicale sull’uomo: chi sono io alla luce della morte? alla luce non di un generico “si muore”, ma di un personalissimo “io muoio” (come ci ha ricordato Heidegger)?
In questo senso dal testo di 2Mac 7,1-2.9-14 («Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le patrie leggi») mi sembra emerga questo tipo di domande fondanti: c’è davvero qualcosa o qualcuno per cui valga la pena morire? per cui valga la pena subire strazi, torture, violenze, umiliazioni? Non è fanatismo, pazzia o stupidità il dare la vita per…? Cosa è così fondante e fondamentale da rendere disposti gli uomini a morire, piuttosto che a rinunciarvi? Cos’è che rende l’uomo più uomo della vita stessa, tanto che è meglio morire (e restare fedeli a ciò che ci fa uomini) che vivere (e perder-ci l’umanità)? Cosa può essere più umanizzante della vita? del restare in vita? E come può la morte, la dis-umanizzazione radicale, essere invece umanizzante?
«Il Signore Dio ci vede dall'alto e in tutta verità ci dá conforto, precisamente come dichiarò Mosè nel canto della protesta: Egli si muoverà a compassione dei suoi servi»: questa è la risposta dei sette fratelli… Ma cosa sono così preoccupati di far vedere a Dio? La loro fedeltà fino alla morte? Lo fanno perché considerano questa la via per il Paradiso, il lasciapassare faticoso, ma fruttuoso per la vita dopo la morte? È un calcolo che hanno in testa? quasi che così pagassero a Dio il loro accesso presso di Lui?
Non sembra proprio questa la prospettiva del testo, anzi: essi non vogliono morire e non vanno incontro alla morte per “dimostrare” qualcosa a Dio, ma sono disposti a farlo per non venir meno alla loro Verità, alla Verità della loro vita. Essa non è un insieme di vuote e nominalistiche dottrine (nessuno muore per un insieme di dottrine), ma la fede certa nella promessa («leggi patrie») di Dio, una promessa di Vita! Essi sono convinti che venir meno alla legge di Dio, sia venir meno alla Vita, sia venir meno all’essere Uomini. Di fatti il senso della legge di Dio è proprio quello di insegnare all’uomo ad essere Uomo! Per questo ad una vita mortifera, preferiscono una morte vitalizzante.
Ecco cos’è che rende possibile il morire: che esso non è fine a se stesso, ma è per la Vita.
E questa Vita è proprio quella che Gesù sostiene di fronte ai Sadducei (Lc 20,27-38): «i morti risorgono». La risurrezione cioè è la Vita per la quale vale la pena morire; la Vita che, stando al testo, non può più morire!
Ma il fatto che «Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi» non rende solo “abitabile” la morte: è anche il fondamento per cui vale la pena vivere! In effetti, anche se è una frase un po’ inflazionata, è vero che ciò per cui vale la pena morire è anche ciò per cui vale la pena vivere (e viceversa!). È quello che suggerisce Paolo: la quotidianità (il tempo che continua) è abilitata proprio per questa «consolazione eterna» e per questa «buona speranza» ( 2Ts 2,16-3,5).
In questo senso mi piace concludere con le parole di Carlo Molari, che mostrano cosa chiede a tutti la morte, per la Vita: «La morte chiederà a tutti 1) di avere consolidato la propria identità al punto da saperne abitare il nome senza ricorrere ad altri riferimenti; 2) di avere imparato il distacco da tutte le cose 3) di avere interiorizzato così gli altri da sapere partire senza tenere nessuno per mano; 4) di avere imparato ad amare in modo così oblativo, da sapere donare se stessi senza rimpianti; 5) di avere imparato a fidarsi così della vita da saperla perdere per ritrovarla».

Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi

…Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi, perché tutti vivono per lui!

Quest’ultima affermazione è la chiave per l’interpretazione degli orizzonti immensi che Gesù offre per uscire dalle insulse discussioni accademiche entro le quali i Sadducei volevano chiuderlo, deridendo la fede nella risurrezione. Dopo, nessuno osa più interrogarlo, nota l’evangelista. C’è un abisso infatti tra le due posizioni, che dentro ogni credente si combattono, con alterne vicende – che segnano i passi della maturazione o dello smarrimento della fede. C’è quella di chi, pur ufficialmente credente, lascia soffocare nelle preoccupazioni e bramosie (o forse angosce) della vita ogni ulteriore speranza, e s’immerge ormai cinicamente tutto nel suo successo (o fallimento) personale, e nella difesa aggressiva di beni conquistati (o bramati), senza più in cuore vibrazioni d’amore, che lo mandino un po’ fuori di sé, in estasi. Il suo Dio è solo ormai il freddo dio di marmo del cimitero, ove finisce tutto. E c’è la proposta di Gesù, che ribadisce la sua fede biblica nel Dio del roveto ardente, un Dio che non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui. E’ adesso, dunque – di qua, non dopo morte – proprio mentre si è sprofondati nei problemi e difficoltà della famiglia, della comunità, della vita sociale, del lavoro … mentre si cerca affannosamente un senso della vita in questo nostro mondo, che si viene “ritenuti degni” di ottenere quell’altro “eone” (un mondo “altro”!) ‑ e la resurrezione dai morti ad esso inerente.

… perché tutti vivono per lui!

C’è dunque un altro “mondo” di vita (o una vita di un altro mondo) che già inizia qua, anzi proprio a questo nostro mondo dà senso ed esito. La fede è la porta per entrare in questa diversa qualità di vita ed inoltrarsi nel cammino... Morte definitiva o risurrezione di questa nostra carne: sono il dilemma drammatico di questa fede biblica vitale. A cominciare da Abramo, “che è padre di tutti noi. Infatti sta scritto: ti ho costituito padre di molte nazioni, davanti al Dio nel quale egli credette come a colui che dà la vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono (…). Fondato sulla promessa di Dio, non esitò nell’incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto gli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. Ecco perché gli fu accreditato come giustizia. E non soltanto per lui è stato scritto che gli fu accreditato come giustizia, ma anche per noi, ai quali sarà egualmente accreditato: a noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore, il quale è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione.(Rom 4,17ss.). È così che è tornata la vita “di Dio” tra noi. S. Paolo spiega come in Cristo sia arrivato al suo termine, per tutti noi, dopo infinite peripezie, il tracciato della fede … promessa ad Abramo, che non sapeva dove era mandato, ardente nel roveto di Mosè, che non si consuma, nascosta nella voce di silenzio impercettibile di Elia, rinata a speranza di alleanza nuova nel cuore di carne degli esiliati di Babilonia… fino a Gesù, nel quale il Padre ha realizzato la sua promessa.
essendo figli della risurrezione …

non c’era scritto nel DNA dell’uomo, il quale pure sembra essere il vertice dell’affermazione della vita più piena, nel cammino immenso del creato! e l’uomo continua ad impazzire lungo i millenni, per questo desiderio di non morire, che lo tormenta e lo divora. Ma non c’era scritto nel rotolo interminabile dei segreti della sua specie il gene della risurrezione: è roba da dio! O fantasma del desiderio, senza nessuna prova che l’abbia mai resa credibile al nostro buon senso: cinici, ma non stupidi, i Sadducei, e tutti i loro discepoli nella storia. Questo è del resto il dubbio cha accompagna la fede del credente, e cova nei meandri notturni della nostra angoscia o nei momenti in cui più ci appare incombente lo scadere del tempo che ci è dato. La Resurrezione, infatti, non si dimostra, se ne riceve solo la semente, che lievita la vita del discepolo, che l’accoglie. La resurrezione di Gesù il Cristo ha indotto una mutazione nel codice genetico dell’umanità, con un nuovo atto creativo del Padre, che “ lo ha risuscitato, (l’uomo Gesù!) sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere” (At 2,24). Non è un rappezzo aggiunto, è piuttosto un dono, un atto di amore permanente, seminato nel cuore degli uomini, che svelenisce e guarisce l’impotenza e la paura di amare cui l’incubo della morte ci teneva invincibilmente avvinghiati. E divenire, invece, capaci di affetto e tenerezza… fino a donare la vita per i fratelli. Come Gesù, che ha lasciato nella sua vita pieno spazio all’amore del Dio… e ne è morto!

sono figli di Dio

la risurrezione, dunque, ci mette al mondo… a “quel mondo altro”, che il vangelo spiega, dove il motore non è la logica della competizione omicida per sopravvivere ad ogni costo, ma la logica oblativa che inverte la dialettica, ove dunque non si assorbe la vita dell’altro nella propria, ma con il dono della propria vita, del proprio tempo, della propria dedizione, si aiuta l’altro a vivere. Che è il modo di amare di Dio. “Fare vivere” l’altro, infatti, è il modo tipico di Dio di essere presente in noi – afferma Gesù! ‑ “tutti vivono per lui”. Non è una verità dimostrabile con i parametri della nostra scienza o trasmissibile con gli strumenti della ragione o della teologia (basta guardare in giro i risultati delle fatiche scolastiche o catechistiche). È soltanto “professabile” come testimoni, e sperimentabile nel modo di affrontare il mondo in cui siamo, l’istante che passa. Rimanendo ben presenti ed operosi in esso, per non perderlo, perché solo questo tempo è in mano nostra. Ma capaci di perderlo per amore! l’amore, che può spingerci fino a bere il bicchiere vuoto della vita, perché abbiamo offerto il contenuto a chi lo voleva a tutti i costi!

… è una profezia inversa: non ci salva la speranza della vita futura che ci è predetta, cioè non ci salva la professione di fede recitata nel nostro credo, che dopo la nostra morte, risorgeremo. In questo caso dovremmo semplicemente comportarci bene “di qua” stimolati dalla profezia della risurrezione/premio, che ci sarà data “di là”. Ma l’uomo, da solo, non ha la forza di comportarsi bene neanche con una così grande promessa! Sarebbe solo una esortazione morale, con premio ai vincitori! Il sadduceo che è dentro di noi lo sa bene, che non c’è promessa futura che cambi efficacemente la nostra disposizione nel presente, “se c’è la morte di mezzo”! Ma non siamo noi che corriamo verso il premio, con le nostre gambe! al contrario, “la potenza della speranza che ci dà la risurrezione di Gesù” , è arrivata fino a noi … e ci trasforma la vita (di qua!) e ci fa finalmente capaci, nel suo Spirito, di gesti, sentimenti, parole… come lui ci ha insegnato. Diventiamo davvero suoi fratelli di codice genetico, quindi figli di Dio, messi al mondo (a questo “altro” mondo) dalla sua resurrezione, che ci dà la forza di ripetere in sua memoria quanto ha fatto lui! Allora la sua resurrezione, è profezia della nostra ‑ come la nostra è dimostrazione della sua (1 Cor 15,12ss). E rinnova nel nostro corpo di carne la stessa fermentazione del suo corpo mortale, “sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere”. Questa partecipazione, anticipata in noi dalla forza dello Spirito di Gesù, ci fa vivere “in Dio”, che è amore. E ci abilita a fare come Gesù: “Perché qui si tratta proprio di amore, soprattutto di amore e soltanto di amore. Una passione di cui Gesù ci ha dato il gusto e tracciato il cammino: “Non c’è amore più grande che dare la vita per quelli che si amano” (Claverie).

martedì 6 novembre 2007

ma guarda un po'... ;o)

Grazie a "Maurizio C" che ha saputo fare un sofisticatissimo sondaggio di opinione per accertare le ottimissime (sic!) qualità del blog e dei suoi chiarissimi contenuti.

Non capite che cosa sto dicendo? cliccami e lo saprai!
Un'osservazione... l'indirizzo web NON contempla la tripla "w"... uff! (della serie: ma capiranno mai qualcosa di informatica?)

venerdì 2 novembre 2007

Dalla mediocrità all’eccellenza: lo “scambio”

Le affermazioni di James Watson, premio Nobel della medicina, sulla inferiorità della capacità intellettiva dei Neri rispetto agli Occidentali, giustificato, a parer suo, geneticamente, al di là dell’indignazione e della provocazione che possono suscitare come del fiume di inchiostro che hanno scatenato nel riesumare gli stereotipi razziali e l’ideologia che le caratterizza, sollecitano una riflessione profonda sulla natura e la struttura dei rapporti tra gli uomini in vista di un tentativo di raccogliere, in una sintesi necessariamente limitata, le condizioni di possibilità di un’intesa condivisa per una convivenza pacifica tra i popoli, tra le culture… tra di noi… in un mondo determinato più che mai, da un pluralismo radicale delle culture, delle religioni e dei valori.

Il problema principale è quello dell’accoglienza della diversità, sempre esaltata come ricchezza, come ciò che mi completa, sorgente di scambio, di innovazione e di creatività per il genere umano. La mia identità può, nella sua formazione e manifestazione dipendere dell’altro? Il diverso è forse alienante? Perché l’altro ci destabilizza, ci spaventa, ci provoca, ci “ruba spazio” e ci toglie il “muro di sicurezza” che ci circonda?

Il Vangelo, la narrazione credente del fatto Gesù, che non è solo un luogo del credo, ma la storia di un uomo, (senza escludere altri linguaggi storicamente dati), nello svelare l’originaria energia comunicativa dell’evento linguistico, ci offre spunti per radicarci in una prospettiva nuova in vista dell’accoglienza-ascolto dell’altro, dove è l’altro a dirmi la verità su me stesso.
In questa prospettiva una tale verità non si difende, proprio perchè è disarmata e quindi si testimonia e si comunica con la vita… infatti una tale maturazione non si acquisisce con discorsi moralistici e terapie psicologiche, ma in un vissuto autentico dell’esperienza di fede.
L’alterità per non cadere nella reificazione assolutista dell’altro, presuppone una reciprocità, segno di complementarità e di accoglienza vicendevole, perché l’alterità è una componente essenziale della reciprocità. Quindi trattandosi dei “volti” che si incontrano è preferibile l’uso del termine di “scambio” per sottolineare la sete di complementarità dell’altro che mi compie e mi determina…
Nella fede si radica, (si rende operante) l’alterità che Dio opera in me, le fede intesa qui come anticipazione dell’indisponibile. Nella fede infatti noi accogliamo la diversità di Gesù come riferimento ultimo di noi stessi. Più propriamente ancora, la fede costituisce l’esperienza di un lasciarsi accogliere nella diversità di Cristo, come anche afferma san Paolo: “non sono io che vivo, è Cristo che vive in me”. Questo è il senso della nostra consacrazione battesimale o religiosa.
Nella narrazione neotestamentaria dell’evento cristologico, questo rapporto tra le diversità, viene descritto con linguaggi diversi. Si usano così, tra l’altro, le metafore del riscatto e della liberazione… Laddove tuttavia il rapporto assume la sua massima intensità, per cui non c’è soltanto un operare da parte di Cristo qualcosa nell’altro e per l’altro (riscattare, liberare, ecc.), e nemmeno soltanto un generico far propria la realtà dell’altro da parte del Figlio di Dio (“divenne carne”, dove, se carne implica senz’altro debolezza e fragilità, non sembra tuttavia contenere ancora per se stessa il peccato), ma c'è la immedesimazione alla “ultima” diversità dell’altro, cioè il peccato (che suppone quindi una diversità alternativa rifiutante il rapporto stesso). Emerge allora la metafora dello scambio (katallagê) come descritto in 2Cor 5,17-21 :

Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. E' stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio.”

La comunione di amicizia che la presenza della diversità divina stabilisce tra di noi, evidenzia la manifestazione stessa di ciò che Dio è: la sua “epifania”. Il motivo dell’accoglienza della diversità ultima, non è quindi un adattamento estrinseco a un altro, ma è proprio ciò che ne mette allo scoperto l’identità ultima.

Il compito della fede cristiana è quindi per sua stessa natura un’assunzione di alterità, un rifacimento di soggettività attraverso uno “scambio”. Il rapporto tra due realtà radicalmente diverse, tra quella di Dio e quella dell’uomo, è il fondamento stesso della fede ed è costitutivamente un’assunzione dell’alterità.

Assimilato questo ci eviteremo tante guerre e discordie...

Chi è Dio, alla luce della povertà dell'uomo?

«Signore, tutto il mondo davanti a te, come polvere sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra».
Mi pare che la liturgia di oggi con questa frase della Sapienza ci faccia ripartire là dove ci aveva lasciato la scorsa settimana: la condizione di povertà dell’uomo; una povertà, dicevamo, non accidentale o attuale, ma costitutiva, ontologica.
Di fronte a questa situazione dell’uomo, di dio e a dio si potrebbe dire: «Certo, non aveva difficoltà la tua mano onnipotente, che aveva creato il mondo da una materia senza forma, a mandare loro una moltitudine di orsi e leoni feroci o belve ignote, create apposta, piene di furore, o sbuffanti un alito infuocato o esalanti vapori pestiferi o folgoranti con le terribili scintille degli occhi, bestie di cui non solo l'assalto poteva sterminarli, ma annientarli anche l'aspetto terrificante. Anche senza questo potevan soccombere con un soffio, perseguitati dalla giustizia e dispersi dallo spirito della tua potenza. Ma tu hai tutto disposto con misura, calcolo e peso. Prevalere con la forza ti è sempre possibile; chi potrà opporsi al potere del tuo braccio?» (Sap 11,17-21, quelli immediatamente prima del brano della I lettura).
È proprio vero che di fronte a un uomo così, così piccolo, così povero, così fragile, così incapace di fedeltà, di costanza, di saldezza... Dio potrebbe proprio dilagare con la forza e il potere del suo braccio... L’uomo in questo senso non ha speranza di fronte a dio, tant’è che tutta la storia delle religioni, a partire dall’uomo preistorico fino ad oggi, si mostra come il perenne tentativo di ingraziarsi dio, di placarlo, di domarlo, di renderselo favorevole, attraverso pratiche magiche, rituali, sacrifici...
Ma la Sapienza rispetto a questa modalità arcaica di relazionarsi a dio, che riecheggia anche in ciascuno di noi, ha un’intuizione diversa. Di Dio parla come del «Signore, amante della vita».
«Amante della vita» perché l’ha creata Lui, perché non c’è niente di più suo: «Poiché tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l'avresti neppure creata», «Tu risparmi tutte le cose, perché tutte son tue»!
Fanno quasi sorridere la schiettezza e la lucidità di queste affermazioni, soprattutto se le si colloca nell’ambito anticotestamentario, così spesso additato come il luogo dove troverebbe attestazione l’idea di un dio vendicativo, e se lo si confronta con gli equilibrismi che spesso noi facciamo per tenere insieme Dio e tutti, «tutte le cose»...
A noi viene molto più naturale tirare i confini, definire bene chi è dei nostri (che nella nostra testa naturalmente equivale a dire “chi è di Dio”) e chi no, chi è giusto e chi no, chi è nella piena comunione della Chiesa (che nella nostra testa naturalmente equivale a dire “nella piena comunione con Dio”) e chi no... e che fatica facciamo a tenere insieme il dato che la salvezza è per tutti e che però abbiamo bisogno che qualcuno non si salvi... perché altrimenti cadono tutti i nostri apparati etici, spirituali, devozionali...
La Sapienza sembra parlare diversamente da noi e tratta, anche di una realtà grave come il peccato, con una “leggerezza” inaudita. Può farlo perché al centro del suo pensiero c’è Dio, il vero volto di Dio. Il punto prospettico da cui si guarda è Lui, non è il peccato o la condanna. Questi ultimi sono sempre riassorbiti in un orizzonte più ampio, che è quello della conversione (che in greco non ha connotazioni morali, ma esistenziale: è il cambiare il proprio pensiero, il proprio orizzonte di senso) e in ultima analisi della relazione con Dio: «Hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi, non guardi ai peccati degli uomini, in vista del pentimento», «Per questo tu castighi poco alla volta i colpevoli e li ammonisci ricordando loro i propri peccati, perché, rinnegata la malvagità, credano in te, Signore».
Anche Paolo ha un’espressione di questo genere; prega «perché sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi e voi in lui». Il fine è la gloria di Dio, che sant’Ireneo dice essere l’uomo vivente! Tant’è che essa non si realizza mai senza l’uomo: «preghiamo di continuo per voi, perché il nostro Dio vi renda (ritenga) degni della sua chiamata e porti a compimento, con la sua potenza, ogni vostra volontà di bene (desideri buoni) e l'opera della vostra fede».
È proprio questo nucleo esplosivo, intuito dal libro della Sapienza e realizzato in Gesù, che Paolo vuole sia custodito a tutti i costi e non vada confuso, annacquato, sbiadito: «Ora vi preghiamo, fratelli, riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e alla nostra riunione con lui, di non lasciarvi così facilmente confondere e turbare, né da pretese ispirazioni, né da parole, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia imminente». C’è tutta una storia da vivere, guardandola finalmente dal punto di vista di Dio!
Il Vangelo di Luca mi sembra presenti proprio questo: una storia guardata dal punto di vista di Dio (che per un cristiano non può che essere il punto di vista di Gesù).
Siamo di fronte a una di quelle persone che il nostro bisogno di tracciare confini lascerebbe proprio fuori: c’è infatti Zaccheo, che è pubblicano (anzi, peggio, un capo dei pubblicani) e ricco (anzi, peggio, arricchito sulla pelle di altri, dei suoi).
Luca tra l’altro pochi versetti prima (18,18-26) ha appena raccontato l’episodio del “giovane” ricco, uscendosene con quest’espressione: «Quant'è difficile, per coloro che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio. È più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno di Dio!».
Anche se c’è da dire che dopo il Vangelo di domenica scorsa (Lc 18,9-14), forse verso i pubblicani abbiamo un sguardo più simpatico (sia nel senso debole di “benevolo”, sia in quello forte di “patire-con”, “partecipare ai sentimenti altrui”).
In effetti anche Zaccheo suscita immediata simpatia: sia per la curiosità che ha di vedere Gesù, sia per gli stratagemmi che mette in atto per vincere gli ostacoli che glielo impediscono. Mi piace provare a pensare con che sentimenti se ne stava su quel sicomoro. Certo entrare nel cuore e nella testa di un personaggio di duemila anni fa, spazialmente e culturalmente così lontano è una bella pretesa... ma in questo desiderio di Zaccheo di vedere Gesù mi pare di poter scorgere la sete profonda dell’uomo di sempre di cercare la Vita...
Gesù arriva, proprio nel contesto di questa attesa carica di attrazione, e... appunto... guarda la storia, la storia di quest’uomo, dal suo punto di vista e gli dice che vuole fermarsi a casa sua, che per un ebreo vuol dire desiderare di fare comunione con lui. Noi forse siamo abituati a sentire questa storia e non ci sconvolgiamo più di tanto, ma le reazioni di chi era lì rivelano la portata di quanto Gesù stava facendo: «Vedendo ciò, tutti mormoravano: “È andato ad alloggiare da un peccatore!”».
Eppure, tanto per cambiare... ha avuto ragione lui! Se si nota, infatti, Luca non fa dire più niente a Gesù (tranne la frase rivelativa finale). Si parla solo di Zaccheo, del suo essere «pieno di gioia» e della sua decisione (non provocata da nessuna altra parola esplicitamente riportata di Gesù) di aprirsi a un rapporto nuovo con gli altri: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto».
A Zaccheo per uscire da se stesso e dai suoi circoli mortiferi è bastato davvero poco: che un altro lo guardasse e gli offrisse comunione... È così vero anche per noi: quante volte ci basta un altro che ci guarda con benevolenza per tirar su gli occhi dal nostro ombelico...
Chissà perché invece ecclesialmente (ma non solo) con un Dio che di fronte al peccato dell’uomo si rivela come colui che «è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto», riusciamo solo a tracciare i nostri confini escludenti?
Forse invece “gli altri” aspettano solo che li guardiamo e proponiamo loro comunione...

giovedì 1 novembre 2007

il Figlio dell'uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto

Ormai il viaggio verso Gerusalemme è quasi finito. Il racconto della salvezza, dopo tanti insegnamenti e tanti incontri, si era inceppato nel giovane ricco, che si ritira triste dal colloquio con il Signore… e la gente commenta: chi potrà salvarsi? Ma avvicinandosi a Gerico, un cieco lungo la strada rinnova la preghiera appassionata della vedova nel tribunale e del pubblicano nel tempio e, finché non è ascoltato, continua a urlare: figlio di Davide abbi pietà di me! E la sua fede lo “salva” e cominciò a seguire Gesù, anche lui. E arrivano a Gerico. C’è tanta gente che s’è ammassata, per vedere e ascoltare Gesù. E’ un rabbi strano, con un messaggio sconvolgente: dove la bella figura di credenti la fanno il figlio scappato di casa, la donna piegata o la vedova disperata, il lebbroso riconoscente, il pubblicano peccatore… tutti questi guariscono, rinascono, si salvano! I capi, i ricchi, gli scribi e i farisei… rimangono ciechi e sordi e tristi. Adesso Luca vuol chiudere il viaggio con un ultimo incontro di Gesù molto originale: quasi una sintesi di tutto il viaggio prima del finale drammatico!
Cos’è la salvezza? è l’obiettivo di tutti gli incontri. Oggi – dichiara Gesù, in casa di Zaccheo, l’arcipubblicano - la salvezza è entrata in questa casa! infatti, spiegherà a Nicodemo che lo cerca di nascosto: Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui (Gv 3,17). Per forza i farisei ricominciano subito a borbottare, come sempre! Ma è possibile dichiarare “salvo” un tale peccatore senza prima prendere atto di che disastro di uomo era, fare i conti e la penitenza?! Invece, chi credeva (tutti noi!?) che incontrare il Signore, trovarselo in casa, fosse il risultato ottenuto con il nostro buon comportamento, è servito! Bisogna sospendere le nostre categorie di interpretazione, togliersi di testa le idee preconcette su Dio (giusti e peccatori, dannati e salvati, sacrificio e tempio …) fermarsi ad ascoltare e a guardare Gesù, come si comporta con questo capo dei pubblicani… e come costui risponde. Ogni parola, alla fine di questo viaggio di gesti e insegnamenti, è pregna di risonanze di tutto il cammino.
Un racconto del tutto laico: non c’è una motivazione religiosa, un gesto devoto, un sacramento attraverso cui passare, una malattia inguaribile che spinga a cerca l’ultraterreno. C’è solo il desiderio di vedere il Rabbi (o profeta) di cui tutti parlano, perché oggi “passava” di lì. Di certo, dentro questa aspirazione, covava qualcosa che veniva da più profondo, non ben chiara e non molto orientata ancora, ma di certo determinata, visto l’espediente di arrampicarsi su un albero di fronte a tutta quella gente, cui Zaccheo, piccolo di statura, ricorre, come fosse un ragazzo. Con dentro la domanda che trapela dal racconto: “ma Gesù, chi è, in mezzo a quel gruppo?....” Qui avviene l’impensabile: Gesù guarda in su e cerca proprio lui, sulla pianta! e lo chiama per nome: Zaccheo! Non ha neanche il tempo di pensare: Ma come possibile?! perché Gesù vuol addirittura essere accompagnato subito in casa sua, a riposarsi un momento… Ecco che, di fronte ad una disponibilità così affettuosa e accogliente, ciò che da chissà quando covava e pesava nel suo cuore di uomo peccatore, esplode: Signore, metà di quanto ho, la do ai poveri, a chi ho rubato ridò indietro il quadruplo. “Oggi,commenta allora Gesù, la salvezza è entrata in questa casa!
Gesù rovescia le nostre credenze e aspettative di salvezza… e quasi non ce ne accorgiamo, se dopo due millenni ancor pensiamo che il problema della salvezza sia … salvarsi l’anima per andare in paradiso. La salvezza – parola di Gesù! – si realizza nel preciso momento in cui uno si converte (si gira!), rimettendo a posto le relazioni sbagliate che ha con il suo prossimo, e assumendo un atteggiamento di amore verso i poveri, di giustizia verso chi ha malversato. “Perdersi” era dunque opprimere, estorcere e disprezzare. “Salvarsi” è amare i poveri, rifare giuste relazioni con tutti. Ed ancora una volta tutto rimane su un piano laico, che esige però una radicale trasformazione del cuore. Gesù rivive la sua avventura nel mondo: Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto. A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio - a quelli che credono nel suo nome…
Il Padre ha mandato Gesù a cercarci… Gesù ha cercato chi inconsciamente lo cercava: ha trovato uno che lo ha accolto pieno di gioia … e poi lo difende dagli zelanti: perché anch'egli è figlio di Abramo! il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto. Invita così i presenti a capire e partecipare a cosa sta succedendo, in questa casa di peccatori. E insegna a collocare questo fatto, capitato di fronte ai loro occhi, dentro la lunga storia di salvezza, che da Abramo va fino al Figlio dell’uomo, presente lì davanti a loro… Questa è la liturgia nuova, celebrata in una casa sconsacrata da abitanti impuri, garantita non dalla razza o dalle opere buone compiute, ma dalla effettiva trasformazione dei cuori e delle relazioni, dal cambiamento dei rapporti di giustizia e di amore, in quella iniziale minuscola “chiesa” in germoglio – che fa le prove in casa di Zaccheo. Questo è l’esempio che i discepoli, dovranno seguire, dopo gli eventi di Gerusalemme, andando in giro a ripetere quello che con lui avevano visto. Per questo ritroviamo poi questo schema di annuncio e conversione e rinascita nelle comunità cristiane di cui si racconta nelle prime pagine degli Atti della chiesa nascente. Ecco dove avevano imparato.
Il termometro della salvezza: il cambiamento delle relazioni e la gioia del cuore!
La salvezza è dunque il passaggio da un rapporto di oppressione, competizione, imbroglio reciproco… magari frenato da normative morali e legali, che custodiscono una più o meno sopportabile convivenza … ad un nuovo rapporto conviviale, sbilanciato nella benevolenza sia verso i poveri e i deboli, sia verso chiunque abbiamo fatto soffrire… Una trasformazione inondata di gioia, perché ciò che inconsapevolmente soffoca la gioia dentro il cuore di tutti gli Zacchei che noi siamo, è la sofferenza che il nostro comportamento provoca negli altri, l’indifferenza alla loro sorte, per insensibilità di cuore, - o il raffinato disprezzo che nullifica le persone. Il giovane ricco, che non ha avuto il coraggio di condividere i suoi beni con i poveri, come Gesù gli suggerisce, se ne andò triste… non per i propri peccati, che non aveva!... (Quando ci convinceremo che non sono importanti, i peccati, per la salvezza?… anzi nel vangelo sono proprio i peccatori che si convertono a Gesù, provocando gioia perfino negli angeli del paradiso –più che i giusti!). Se ne andò triste, comunque, perché aveva rifiutato di condividere i suoi beni con i poveri. Forse lui non lo sa, ma è la loro sofferenza che lo contagia e gli incupisce il cuore. Ancora una volta non si tratta di doveri morali adempiuti o trasgrediti, si tratta di relazioni umane da liberare e trasformare in amore, perdono e accudimento reciproco… Questa è la salvezza che Gesù è venuto a portare.
… è venuto a cercare ciò che era perduto: perché Dio è amante della vita.
Perché il messaggio di Gesù è così tragicamente rifiutato, fino a decidere di eliminarlo, quando era solo una proposta e una testimonianza di amore senza alcun interesse, pienamente gratuita e inerme? Perché i custodi della legge e del tempio, i capi del popolo, sono i più duri a respingerlo? Proprio per eliminare la “sindrome di Zaccheo”, perché non abbia imitatori, in questa liturgia nuova, dove in piena libertà, senza interpellare i farisei sull’applicazione della legge, né i sadducei sull’amministrazione dei beni, né i capi sul rapporto fiscale con i Romani… si rimettono a posto, con tutt’altri criteri, le relazioni di giustizia e di amore tra gli uomini (come l’amministratore previdente). Perché non è affatto vero che si tratta di un messaggio spirituale, nel senso di innocuo, fuori della storia. É inerme, cioè disarmato, ma esplosivo… e le sue conseguenze assunte in piena libertà e gioia sono certamente anche economiche e politiche
Zaccheo si è ammalato della malattia di Dio
Questa è la vera causa dello “scioglimento dei peccati”, praticata da questo Rabbi! Zaccheo si è ammalato di compassione, cioè di passione per la vita degli altri, a cominciare dai poveri e da quelli che ha impoverito lui! E’ diventato “amante della vita”, non dei soldi. Perché gli è rinato dentro il vero amore dei viventi. E allora i soldi e i beni sono solo dei mezzi per vivere e far meglio vivere la gente. I capi e i responsabili del popolo e del tempio disprezzavano il pubblicano, ma usufruivano del servizio. Questo Rabbi non lo disprezza per niente, anzi si è autoinvitato a casa sua, tra lo stupore scandalizzato della gente, ma gli ha riempito di gioia il cuore e tutta la casa. Gli ha tolto di dosso per sempre il disprezzo e gli ha cambiato la vita, con questa seconda “celebrazione penitenziale evangelica” che Gesù ha celebrato, con intenso compiacimento e tenerezza. (La prima è stata in casa di Simone il Fariseo (7,36ss), con la prostituta che , anche lei tra il disprezzo dei benpensanti, non ha altro di suo da dargli che profumo e baci, lacrime e carezze… Non a caso sono i due i prototipi di tutti i peccatori che hanno accolto la salvezza e ci precederanno in paradiso!).
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...

I più letti in assoluto

Relax con Bubble Shooter

Altri? qui

Countries

Flag Counter