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ATTENZIONE!


Ci è stato segnalato che alcuni link audio e/o video sono, come si dice in gergo, “morti”. Se insomma cliccate su un file e trovate che non sia più disponibile, vi preghiamo di segnalarcelo nei commenti al post interessato. Capite bene che ripassare tutto il blog per verificarlo, richiederebbe quel (troppo) tempo che non abbiamo… Se ci tenete quindi a riaverli: collaborate! Da parte nostra cercheremo di renderli di nuovo disponibili al più presto. Promesso! Grazie.

martedì 30 ottobre 2007

i santi poveri

una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua.

… chi sono costoro? sono i “beati”! non già quelli ufficiali, che non erano scritti sul calendario, ma quelli di tutti i tempi, e di tutte le chiese e le razze e le lingue - dei quali, secondo Gesù, il Padre si compiace, come a rinnovare nella storia dei millenni, quella specie di benedizione gioiosa, che ripeteva nei vari passi della creazione: E Dio vide che era cosa buona! . Perché Dio, dalla sua postazione, vede la pienezza dello sviluppo futuro già dentro nell’istante minuscolo e transitorio del presente. Per questo, forse, le beatitudini hanno all’inizio, un titolo, per così dire: “beati i poveri!”. Perché in questa “mancanza di bene dovuto”, che è la povertà, in questa incompiutezza di umanità che aspetta, sta la caratteristica comune a tutti coloro che sono detti “beati” da Gesù.

Per cui sono anzitutto i poveri che ci danno, già adesso, in questo mondo, la chiave di lettura del Regno di Dio. Perché anche lui, qui, è povero, nascosto e impercettibile, ma presente… Beati i poveri, dunque, perché di essi è il regno dei cieli. A tutti gli uomini, quindi, anche a quelli incoscienti del mistero di salvezza in cui sono avvolti,… è annunciato (evangelizzato) che la loro povertà, la loro miseria e incompiutezza umana, non è una maledizione, ma è già impregnata dalla benedizione e dalla benevolenza del Padre, che appunto vede il futuro nel mistero di povertà del presente, e ci assicura che ha un progetto (un regno da costruire) con i poveri - che sono loro anzi, il suo progetto, cioè il suo Regno.

… Gesù, che vede la storia con il cuore del Padre, indica (al futuro!) per le varie specie di poveri il finale nel Regno… come andrà a finire! Non è come il premio che ci sarà dato solo dopo il traguardo, faticosamente raggiunto. La benedizione di compiacimento del Padre, è come un seme, già depositato nel cuore dell’umanità, un fermento gia impastato dentro il cuore degli uomini. Già adesso lievita la storia e dà senso e sostegno e consolazione al cammino del credente.

C’è grande solennità per questa rivelazione del segreto del Padre sulla storia degli uomini: salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava… La proclamazione che le sofferenze abbandonate, i desideri inascoltati, gli sforzi incompresi e sempre ricominciati, di bontà e di mitezza nella costruzione della pace e della giustizia, la misericordia che perdona sempre e comunque, la trasparenza del cuore e degli occhi … tutte queste situazioni di incompiutezza, di attesa operosa, di persecuzione gratuita… non sono l’ultima parola. Hanno già adesso, dentro di sé, un futuro di consolazione, di esaudimento, di beatitudine, appunto… fino a conquistare ed impregnare di mitezza e tenerezza e misericordia tutta la terra.

siamo già adesso, figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato

… un Padre così grande, immensamente buono, onnisciente e potente… ha dei figli così poveri? C’è qualcosa che non funziona nella nostra concezione… o di Dio o della nostra storia! Qualcosa che ci fa velo e non ci lascia vedere, secondo Gesù, la verità della “benevolenza compiacente” di Dio sulla nostra vita. Eppure, il Vangelo – la buona notizia! ‑ è questa : che noi stiamo andando verso un futuro in cui la nostra vera identità inedita, implosa, sarà pubblicata, si farà palese. Adesso non la conosciamo ancora! Ci sono però nel Vangelo le indicazioni profetiche di come saremo…i prodromi, i germogli, la preparazione tacita di ciò che esploderà in noi.

...sono le “beatitudini”, cioè il parere profetico di Dio sulla nostra storia! i poveri, gli afflitti, i miti, gli operatori di pace e di giustizia, quelli che seminano sempre misericordia, quelli che con la sopportazione dell’aggressività e delle prepotenze persecutorie sveleniscono le tensione e i conflitti … sono i rappresentanti di ciò che saremo. Sono la preparazione qui in terra di come sarà questo mondo nel mondo li là! Sono questi i “poveri santi” evangelici… non inquadrabili in modelli culturali stereotipati o consacrati, come quelli scritti nel calendario per la nostra edificazione. Quelli evangelici non è che siano da imitare, sono già in mezzo a noi, e noi non ce ne accorgiamo, se non di rado, ma sono “in condizione di santità”, pur sembrando solo… poveretti, come noi! Sono tutti gli sconfitti anonimi, umiliati dai prepotenti della terra, e non sono incattiviti. Hanno ceduto quanto gli spettava, per non litigare con i fratelli. Hanno taciuto, perché nessuno sarebbe stato ad ascoltarli. Le innumerevoli donne che nelle case, nei grattaceli o nelle capanne, hanno distribuito accudimento e tenerezza senza riceverne il contraccambio, i bambini che piangevano o ridevano, anche se nessuno li guardava… gli schiavi sfruttati da tutti, senza considerarli uomini… e lo stesso hanno dato mani, sudore e sangue… Il Signore dice che sono “beati”…

noi stessi siamo chiamati a vedere con questa luce la nostra vita.

C’è una parte di noi stessi che simpatizza già adesso per questa benevolenza del Signore che annuncia il nostro futuro, come vivessimo due livelli di vita diversi. Quella al futuro, seminata in noi dalla sua Parola e dai sacramenti della sua Chiesa… e quella della vita del mondo in ci viviamo, quando la logica della sopravvivenza e della competizione ci riprendono il cuore e riteniamo istintivamente beati quelli che sono “riusciti”, che si sono imposti nella competizione della vita… a costo di opprimere e lasciar per strada tante sofferenze… E ci è riproposta la domanda: vuoi essere uomo dell’attimo transitorio, che comunque è troppo corto per i desideri infiniti del cuore, e svanisce come l’erba del campo?! O invece vuoi essere uomo di eternità!? che si lascia segnare con il sigillo delle beatitudine sulla fronte, e lava le sue incerte e ambigue speranze nel sangue dell’Agnello, cioè nella parola, nella vita e nella morte e resurrezione di Gesù. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.

Non perché i cristiani siano dei pessimisti,

che vedono nel mondo solo la caducità e non sanno fare altro che rassegnarsi. Certo, non fanno del mondo e della cultura la ragione unica della loro vita, perché è troppo poco, e la promessa che è stata rivelata per loro e per tutti gli uomini è troppo più lunga di questo mondo. Ma sono ottimisti nei confronti del divino che è presente nel mondo (Bonhoeffer). Per cui sono sereni anche nella sofferenza dell’attesa, ma di una serenità che è pur sempre venata di malinconia, per l’incompiutezza attuale che fa soffrire tanta gente, e di nostalgia del futuro che ci è promesso. Convinti però che il mondo e solo il mondo è il luogo del loro lavoro, il campo di azione del Regno di Dio.

…tra questi santi ci sono i nostri morti,

gli innumerevoli anelli della catena della vita che è arrivata fino a noi, che ci hanno accudito, hanno camminato con noi … con le loro debolezze e fatiche, il loro affetto e il loro mistero “inedito”. Perché è proprio questo l’anelito o il gemito fondamentale di tutto il creato, che la morte ci sembra soffocare: il legame di relazione e di coinvolgimento incancellabile tra fratelli sorelle, piccoli e grandi, tutti affamati di amore e comunione. A loro ci lega indissolubilmente questa comunione che adesso, dalla loro parte, pensiamo già entrata nella luce. Hanno già sciolto il velo che copriva, sul loro volto, il disegno della misericordia del Padre, che ha asciugato le loro lacrime… Allora risplenderà la luce di questa promessa che ogni sofferenza per mancanza di amore in questo mondo, ogni povertà e miseria, è già accolta dal Padre nella sua misericordia. Vedranno faccia a faccia, che il segreto nascosto sotto la scorza dura della vita era già una beatitudine divina.

venerdì 26 ottobre 2007

26 ottobre 2007

BUON COMPLEANNO DAVIDINO
Tanti auguri
nel giorno in cui celebriamo la gioia
perchè ci sei!

gloria Dei vivens pauper

«Il Signore è giudice e non v'è presso di lui preferenza di persone. Non è parziale con nessuno contro il povero, anzi ascolta proprio la preghiera dell'oppresso».
Mi vien da dire: “Beati i poveri! Proprio la loro preghiera è ascoltata! La nostra invece…”.
Ma a dire “la loro preghiera” non sarò mica come quel fariseo che si tira fuori dalla solidarietà umana dicendo: «non sono come gli altri uomini».
In effetti mi accorgo di come sia una reazione immediata non identificarmi coi poveri… Insomma si fa poi sempre parte di quelli che non si dicono ricchi, ma di certo non muoiono di fame; che non sono premi Nobel, ma insomma neanche dei grandi ignoranti; che non sono senza colpe, ma nemmeno dei super peccatori… In fin dei conti le principali povertà del nostro mondo (economiche, culturali, morali…) ci sfiorano, o anche ci toccano, ma non ci identificano. Tant’è che anche nel mondo della vita religiosa pare si preferisca “farsi poveri”, piuttosto che “esserlo”.
Questo istintivo prendere le distanze dall’auto-identificarsi come poveri mi pare comprensibile seguendo gli schemi comuni: a nessuno piace essere nell’indigenza, aver bisogno di un altro, riconoscersi incapace, fallito, sbagliato, brutto, sporco… è troppo per l’alta considerazione che abbiamo di noi stessi, anzi, in qualche misura, che dobbiamo avere di noi stessi, dato che in questo mondo siamo gli unici di cui ci possiamo fidare… tutte le solidità e le solidarietà sono crollate: il lavoro è ridotto a competizione, i matrimoni (e le relazioni amorose in genere) sembrano destinati a finire o a ridurre alla reciproca estraneità i due, le amicizie hanno sempre l’ombra del “volersi bene per interesse”…
In realtà prendere le distanze dalla com-passione con l’umano e tirarsi fuori da un enorme popolo (l’umanità) che soffre, spera, pecca, teme, geme non salva nessuno, come invece istintivamente ci verrebbe da pensare, mossi più dalla irrazionale paura della morte che da un lucido desiderio di Vivere.
Anche perché per quanto ci tiriamo fuori dalle situazioni contingenti di povertà (e di peccato «non sono come gli altri uomini»), non possiamo non sfuggire alla nostra condizione ontologica di poveri. E in proposito vorrei citare una pagina eloquente di A.Rizzi[1]:

L’uomo è povertà
In quanto oggetto e destinatario dell’agape l’uomo è l’essere-di-bisogno; dove bisogno dice a un tempo la relazione a un insieme di beni da fruire e la problematicità del possesso di quei beni. Nella prima faccia il bisogno dice ricchezza, almeno virtuale, potenzialità di espansione e di felicità; nella seconda, dice che ogni bene conquistato non è mai garantito, che ogni ricchezza acquistata è sempre insicura, ogni espansione precaria, ogni felicità fragile. Non siamo mai le cose che abbiamo, neppure le più intime: il nostro modo di essere è l’avere, in un senso più profondo di quanto dica l’abituale distinzione tra essere e avere. Infatti quella distinzione si istituisce sul piano valutativo, come discriminazione tra beni autentici e beni estranianti; ma sia gli uni che gli altri non diventano mai noi stessi al punto da essere inalienabili, rimangono sempre sotto il segno dell’aleatorietà. Qui non siamo più sul piano della valutazione, ma della struttura dell’esistenza umana, di quella che possiamo chiamare povertà radicale dell’uomo. […] Povertà non è sinonimo di finitezza. Un essere finito potrebbe avere tutto ciò che gli compete, e averlo in maniera così salda e sicura da non correre pericoli per la propria realizzazione: […] parlare di povertà in questo caso avrebbe senso soltanto misurando l’uomo su un metro, a lui estrinseco, di infinito. […] Povertà non è limite del proprio essere; è limite dentro il proprio essere. […] Ma abbiamo detto povertà radicale. E con questo intendiamo porre una distinzione tra le situazioni attuali, effettive, di povertà e quella condizione di base, quella fragilità che permane anche nelle situazioni di opulenza e di esteriore sicurezza, e che nessun possesso o potere può superare. […] È questa crepa che chiamo povertà radicale; quella che una famosa immagine biblica chiama i piedi d’argilla che reggono la statua di metalli preziosi. […] Ma: gloria Dei vivens pauper. Quest’espressione di Oscar Romero, che riprende e precisa quella di Ireneo [gloria Dei vivens homo], costituisce la definizione dell’essere umano alla luce dell’agape divina. Dire che Dio ama l’uomo come altro da sé equivale a dire che nell’uomo egli ama il povero: non ciò che l’uomo ha ed è, ma quell’essere-di-bisogno che è bisogno di avere e di essere. […] Ma proprio questa povertà, che in sé non ha né è nulla di amabile, viene amata da Dio e da lui colmata: e in questo gesto Dio si rivela Dio. Dunque, la volontà di colmare il povero – ogni uomo in quanto povero – è la parola originaria che Dio dice su di sé: è la sua gloria. Quando parliamo della predilezione di Dio per i poveri non tracciamo un limite al suo amore – quasi Dio amasse soltanto coloro che sono attualmente poveri – ma indichiamo il luogo privilegiato in cui riconoscere questo amore. Nella preferenza di Dio per i poveri attuali si testimonia la qualità del suo amore per tutti gli uomini nella loro povertà radicale”.


Ecco perché è così importante l’incipit del vangelo che la liturgia di questa domenica ci propone: «Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri».
Il presumere di essere giusti non è solo un problema morale, non è un essere non troppo politicamente corretti… La questione è molto più decisiva, molto più radicale e attraversa l’orizzonte di senso in cui l’uomo si pone:
- quello dell’auto-fondazione su se stessi, in cui Dio è escluso (sono giusto, sono io l’autore della mia giustizia: «O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo») e in cui gli altri sono disprezzati, guardati come concorrenti o al massimo come “gratificatori” del nostro essere giusti;
- quello dell’affidamento a un Altro («Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore»), che crea la solidarietà tra uomini, quindi tra poveri.
Quest’ultima è proprio la scelta di Paolo, l’unica che gli permette di restare saldo anche in una situazione estrema come quella che gli fa dire «nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato». Tant’è che le sue parole tralucono eloquentemente quanto i suoi “piedi d’argilla” si siano piantati su un fondamento sicuro, anzi sull’unico Fondamento: «Carissimo, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede».
[1] A.Rizzi, Dio in cerca dell’uomo. Rifare la spiritualità, edizioni paoline, p. 48-51.

giovedì 25 ottobre 2007

Presunzione di essere giusti - la schizofrenia

Sir 35,12-14.16-18; Salmo 33; 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14

fra il credere e il pregare : quale Dio?

...sembrano due divinità diverse, queste a cui si rivolgono i due credenti praticanti che vanno al tempio a pregare. Due divinità e due credenti discordanti, si direbbe! Proprio questo è l’obiettivo di Gesù: di mettere a nudo due modi radicalmente opposti, di credere e pregare, anche se nello stesso tempio. Forse effettivamente ci sono tra noi personaggi simili a questi due prototipi, ma i due atteggiamenti possono anche convivere e combattersi nello stesso animo… Anzi forse tutti dobbiamo passare attraverso questa esperienza bruciante e dolorosa, appena ci accorgiamo, nel cammino della fede, di essere (stati) farisei capaci di ferire i più deboli e sprofondarli nel loro ‘peccato’ dall’alto della nostra “perfezione”. È sempre la preghiera la cartina di tornasole della fede. L’orante è il credente che si mette di fronte a Dio e s’arrischia a cercare nella propria fede un volto amico di fronte a cui esprimersi, con cui entrare in relazione… Allora la prima raccomandazione è la parabola della vedova ostinata: non smettere mai questa preghiera, per nessun motivo, se si vuoi davvero arrivare a incontrare Dio… E questa è la seconda raccomandazione, altrettanto importante, la parabola del fariseo e del pubblicano: fai attenzione che se parli davvero con Dio, il tuo cuore deve diventare misericordioso e ‘amico’ con il fratello.

"alcuni presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri"

Anche Paolo era sicuro di aver combattuto la buona battaglia… ma attendendo con amore la manifestazione del Signore. Anche la vedova era sicura di essere nel giusto!... cioè di aver ragione. Ma in che cosa? nel bisogno di essere soccorsa, amata, custodita… proprio perché da sola non aveva più risorse, né meriti, da vantare… ma solo quest’immensa povertà e fame di bene, che qualcuno doveva pur esaudire… Invece il fariseo ha tante opere da esibire, vere certamente, ed eseguite con corretta precisione. Qual è, allora, il suo problema? Comincia ringraziando Dio, come è giusto, ma è un soliloquio senza interlocutore, perchè poi al centro del tempio c’è lui, che parla solo di ciò che ha fatto bene, e disprezza l’altro… misurandolo sulla propria esperienza - comportamento così diffuso che è divenuto un proverbio . io ho fatto quel che era giusto, chi invece è causa del suo male pianga se stesso!

noi, buoni cristiani praticanti : abbiamo il nemico in casa!

… con questa parabola Gesù mette in guardia proprio i credenti, i religiosi, quelli che frequentano di più il tempio, osservano i precetti della chiesa e le norme morali. Eppure abbiamo il nemico in casa, capace di svuotare di senso il vangelo … e minare ogni rapporto di amore. Questo tarlo si manifesta nei momenti in cui, magari feriti per qualche delusione o scandalizzati per l’altrui comportamento, non abbiamo più misericordia per nessuno e proclamiamo l’elenco minuzioso (perché tanto rimuginato!) dei nostri meriti e di quanto quindi ci è dovuto! Il verme corrosivo rivela il suo veleno soprattutto nel disprezzo degli altri (letteralmente: “nientificazione”, annullamento)!

Il fariseo è un onesto uomo religioso, che, con la propria fedeltà, costanza, fatica, ha conquistato questa posizione di merito. Proprio per questo, coerentemente, “discrimina” (mette dalla parte del crimine!) chi non ha fatto come lui. Se ci è riuscito lui, possono farlo anche gli altri – se ne avessero voglia! Questa logica soffocante rende “duro”e refrattario alla misericordia il cuore dei migliori discepoli o dei credenti più osservanti…

Luca riprende la parabola, perché è proprio questo il rischio più subdolo nella sua chiesa, la fonte di tutte le discriminazioni, condanne reciproche, divisioni … come del resto tra noi, oggi. Infatti, basta vedere quanto ancora tra i credenti, nelle comunità famigliari, religiose, aggregazioni e movimenti ecclesiali… questo vizio “virtuoso” sia persistente, per capire perché il Signore ci insista in modo così shoccante: chi si crede a posto davanti a Dio, per aver fatto quanto doveva fare, è in grave pericolo, perché diventerà presto il giudice inquisitore, difensore della fede e dei costumi, di cui si considera un esperto. Costui, non conosce affatto Dio, e quindi neanche se stesso. Meglio i delinquenti, sembra dire il Signore! Ma perchè una vita ‘religiosa’ seria e impegnata può finire così?

… può essere la trappola del culto

Il culto come voce di lode e comunione della chiesa, radunata attorno alla Parola e all’eucaristia, è il dono più grande offerto al credente, per confortare e nutrire la sua fede, nel cammino della vita. Ma può diventare fine a se stesso, un doveroso tributo pagato a Dio, ed estraniare dalla sua intima verità che è la riconoscenza al Signore e la partecipazione alla redenzione del mondo, che ancora sta fermentando nella storia… Man mano che la preghiera cultuale tende a separarsi dalle condizioni concrete della storia, dalle sofferenze dei fratelli, allora può anche riempire la vita quotidiana di atti di devozione, ma svuotarla di senso. L’indice rivelatore di questa schizofrenia dello spirito è l’insensibilità progressiva alle sorti del mondo e il giudizio impietoso contro il fratello diverso!

… può essere la trappola di una vita impegnata

Avviene che ci mettiamo – sul serio! – alla ricerca di Dio. Come esito di una vocazione autentica oppure dopo un'esperienza forte, un ritiro, un pellegrinaggio, un lutto, una gioia… quando decidiamo di conoscere il Signore, diventare discepoli. Ma la testa e il cuore subito s’ingombrano di preoccupazioni, di desideri, di progetti, di giudizi buoni, ottimi. Che man mano costituiscono il senso della nostra vita... Impercettibilmente, però, tutto questo, con nostro segreto o manifesto compiacimento… si identifica con “i progetti e pensieri di Dio”… Ed ecco che chi ragiona diverso e non li condivide, o vive altrimenti, è nemico di Dio! Con le conseguenti “giuste” contrapposizioni, e poi condanne, e infine il disprezzo del fratello… per difendere la verità e la morale.

la medicina per la schizofrenia dello spirito è la preghiera del pubblicano

È questa la preghiera che ci mette nella posizione autentica di fronte a Dio: abbi pietà di me, peccatore! Il pubblicano della parabola non lo sa ancora, ma la chiesa di Luca ormai lo sa bene, che questa preghiera salva perché è il gemito dello Spirito dentro di noi, effuso in noi per insegnarci a pregare davvero, perchè da soli non siamo capaci.. Ci fa dire: abba, padre! senza altre parole, chiamando con un gemito il Dio di Gesù, non come giudice o creatore … ma come “colui che ha pietà”, l’amore chinato su di noi! Qui sta il nodo fondamentale del fatto cristiano – e l’equivoco determinante di ogni deviazione. Un cristiano che accusa e condanna un altro d’essere peccatore è il colmo dell’incomprensione nel discepolo di Gesù. Esser discepolo consiste invece nella sequela determinata di colui che fu computato tra i malfattori: “…Usciamo dunque anche noi dall’accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo obbrobrio” (Eb 13,13). Che questo obbrobrio, questa lontananza di Dio sia abitata da Dio in maniera molto maggiore del simbolo religioso, ecco il mistero! Ma è questa sorprendente dislocazione di Dio rispetto ai nostri pensieri che fa dire a Gesù che le prostitute e i pubblicani passano avanti ai capi ai santi religiosi… nel regno di Dio! Questa invocazione apre al credente lo spazio propriamente cristiano (cattolico) che Gesù di Nazareth ha vissuto con coloro che erano fuori, lontani e perduti… E porta a vivere la povertà di Dio nella storia, attraverso la partecipazione appassionata e simpatizzante con la speranza, la sofferenza, la debolezza di ogni uomo – perché si colloca là dove Dio ha fatto il miracolo, in fondo al tempio, sotto il giudizio impietoso dei “giusti”… Senza mettere mai più la propria fiducia in certezze o progetti o ideologie … ma solo nella testimonianza della misericordia del Signore, come Paolo: Il Signore però mi è stato vicino, mi ha dato forza!

"Io sono come gli altri”… un uomo da salvare”

… il “santo” cristiano è, infatti, un ex-fariseo invaso dalla grazia del pubblicano, per cui non solo non giudica più nessuno, ma si sente salvato dallo stesso amore, scoppia di riconoscenza della stessa riconoscenza del peccatore perdonato, e dunque corre in fondo al tempio, nei crocicchi delle strade, sui marciapiedi della città… ad abbracciare il “peccatore” finalmente fratello, perché da lui ha imparato a pregare! E gioisce che giustamente lo preceda in paradiso, sapendo che gli apre la strada, se lo tiene per mano!

… nessun “fatto cristiano” è più illuminante che la preghiera di Gesù morente in croce nell’estrema lontananza da Dio: per il luogo (fuori del tempio), il tempo (bisogna fare in fretta, perché non contaminare il sabato), l’osservanza della legge (uccidono l’unico giusto!). Ma Gesù prega per il perdono dei suoi assassini e promette compagnia eterna con sé al ladrone : quale maggiore “testimonianza” che Dio accoglie l’estrema lontananza da sé? Non è stato Gesù ad abbandonare il Padre, è stato l’amore del Padre a spingerlo là dove c’era l’assenza, in mezzo ai peccatori, perduti, senza pastore… in modo che, divenuti suoi amici, il Padre non potesse che salvarli e amarli.

I soldi alla Chiesa - RepubblicaTV

I soldi del vescovo (4 ottobre 2007) - parte prima - seconda parte
La Chiesa come potenza economica. I rapporti tra lo Stato laico e la conferenza episcopale. Un'inchiesta di Repubblica. Con Curzio Maltese
In studio, Curzio Maltese, la Repubblica. A Milano, Luigi Amicone, direttore di Tempi, e Roberto Beretta, giornalista e scrittore. Collegamento con Maria Bonafede, presidente Tavola Valdese, e monsignor Giuseppe Casale, arcivescovo emerito di Foggia, monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo, presidente del consiglio affari giuridici della Cei. Conducono Paolo Garimberti ed Edoardo Buffoni

martedì 23 ottobre 2007

Da non perdere... su Jesus

Si può ancora ridere di Dio?
a cura di Giovanni Ferro


La satira religiosa dopo l’11 settembre
Diciamocelo: "ridere di Dio" non è mai stato facile. Ma oggi, dopo la tragedia delle Torri gemelle e i rigurgiti del fondamentalismo in tutte le religioni, sembra un’opera impossibile e pericolosa. Eppure, forse, sempre più utile e "santa".

Una risata ci salverà di Piero Pisarra
Fede a prova di Humour di Luigi Bettazzi
L'odio sconfitto dalle battute di Luciano Scalettari
La satira contro il chador di Austen Ivereigh
Beffe sugli integralismi di Luciano Scalettari
Il ruggito del Divino di Antonello Dose e Marco Presta

domenica 21 ottobre 2007

L'eutanasia della ragione della fede...

È un po' che volevo scrivere sul tema ma non osavo, visto però che il dado è stato tratto... eccomi qui! E siccome non è più rintracciabile in rete e per chiarezza, riporto qui l’articolo dell’Osservatore Romano (il grassetto e le lettere tra parentesi quadre sono miei):
"La Cassazione ha deciso ieri di consentire un nuovo processo innanzi alla Corte d'Appello di Milano sul distacco del sondino nasogastrico ad Eluana Englaro, una ragazza in stato vegetativo dal 1992 a seguito di un incidente stradale. Il padre della ragazza chiede infatti di interrompere l'alimentazione artificiale che tiene in vita sua figlia. Le motivazioni della sentenza della Cassazione sono essenzialmente due: il diritto all'autodeterminazione terapeutica del paziente[a], secondo la suprema corte, non incontra alcun "limite"[d] anche nel caso in cui ne consegua "il sacrificio del bene della vita"[b], poiché lo Stato italiano riconosce il pluralismo dei valori[c]. La volontà della ragazza è presumibile[e] da alcune dichiarazioni fatte dalla stessa, quando era in piena salute. In una circostanza[f] la giovane avrebbe dichiarato la sua contrarietà a "vivere una vita artificiale". La seconda motivazione è lo stato di irreversibilità della sua condizione, "secondo standard scientifici internazionalmente riconosciuti"[g].
Premesse che appaiono evidentemente confutabili. Nessun esperto potrebbe, allo stato attuale, dichiarare l'irreversibilità[h] della condizione di stato vegetativo, se non in base ad una scelta puramente soggettiva. Sulla volontà di Eluana, poi, l'arbitrarietà appare palese. La dichiarazione di un momento[f] non può evidentemente essere presa a parametro per presumere la volontà di una persona riguardo a scelte come quelle che riguardano la contrarietà o meno ad un trattamento che fra l'altro si pone al limite fra terapia e nutrizione[i].
Il segretario generale della Cei, il Vescovo Giuseppe Betori, pur non entrando nel merito della vicenda, ha ricordato che la "vita va difesa sempre". In ogni suo momento, si può aggiungere, poiché sulla vita stessa, e sulla sua interruzione, nessun uomo ha alcuna signoría. Nel caso specifico della sentenza della Cassazione, dunque, è inaccettabile il relativismo dei valori, soprattutto se questi riguardano la conservazione o meno della vita. Accettare, pure nel vuoto legislativo, una tale posizione, significa orientare fatalmente il legislatore verso l'eutanasia. Di più: introdurre il concetto di pluralismo dei valori significa aprire una zona vuota dai confini non più tracciabili. Significherebbe attribuire appunto ad ognuno una potestà indeterminata sulla propria esistenza dalle conseguenze facilmente immaginabili, anche solo ragionando dal punto di vista etico". (Ma.Be.)
(©L'Osservatore Romano - 18 Ottobre 2007)
Fin qui l’Osservatore. Ma è proprio corretta l’informazione che l’OR trasmette sulla sentenza della Cassazione? L’OR da’ una sua informazione che non sembra corrispondere né al testo né al suo contesto. Facciamo un confronto, mettendo ordine tra quanto riportato dall’OR e ciò che effettivamente afferma la sentenza della Cassazione:

L’Osservatore Romano:
  1. La Cassazione afferma “il diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente”
  2. Anche nel caso in cui ne consegue “il sacrificio della vita”
  3. poiché lo Stato italiano riconosce il pluralismo dei valori
  4. questa autodeterminazione, “non incontra alcun “limite”
  5. la volontà della ragazza è presumibile da alcune dichiarazioni… quando era in piena salute
  6. in una circostanza la giovane avrebbe dichiarato la sua contrarietà a “vivere una vita artificiale”// la dichiarazione di un momento
  7. secondo standard scientifici internazionalmente riconosciuti
  8. nessun esperto potrebbe, allo stato attuale, dichiarare l’irreversibilità della condizione di stato vegetativo
  9. trattamento che fra l'altro si pone al limite fra terapia e nutrizione
La Cassazione nella Sentenza n° 21748 del 16/10/2007 dichiara:
    1. Il diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente
    2. Anche nel caso in cui ne consegue “il sacrificio della vita” (§6.1)
    3. Poiché lo Stato italiano riconosce il pluralismo dei valori
    4. Questa autodeterminazione incontra un’eccezione e a due condizioni che devono sussistere entrambe: perché “ove l'uno o l'altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l'autorizzazione”
    5. Quando la volontà del paziente “sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo”
    6. E questo si deve evincere “dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti”…
    7. quando la condizione di stato vegetativo sia in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile”
    8. e questo esclude “la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno a una percezione del mondo esterno”.
    9. «non v'è dubbio che l'idratazione e l'alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscono un trattamento sanitario». Ma «Diversamente da quanto mostrano di ritenere i ricorrenti, al giudice non può essere richiesto di ordinare il distacco del sondino”
Solo i primi tre punti sono sostanzialmente corretti, gli altri sono praticamente inventati! All'autore dell'articolo però, sembra che siano bastati per non continuare a leggere la sentenza! Puramente arbitrario poi appare il punto h.: non si capisce in base a quale presupposto venga formulato! Capisco che siamo davanti a un articolo di giornale, anche se dell’OR, ma se pretende di avere autorevolezza, dovrebbe dare più oggettività alle proprie affermazioni. Se i Papi parlano spesso, penso giustamente, di correttezza dell’informazione, ancor più questo dovrebbe valere per i “suoi” servizi informativi. Solo all’interno di una informazione corretta ed esaustiva si può aprire rettamente il dibattito, anche etico, sull’opportunità di una tale sentenza e sul suo contenuto, ecc., ecc.: ma partendo da ciò che effettivamente è scritto e non da ciò che è temuto. Resta da fare una osservazione, e non da poco, sulla “pluralità dei valori” che l’OR sembra temere e rifiutare! La pongo sotto forma di domanda: la libertà religiosa, così solennemente ribadita dal Vaticano II e riaffermata con forza dai Papi, compreso l’attuale, non costituisce forse l’affermazione di una legittima pluralità di valori? E l’etica, non è una concretizzazione del “credo (o non-credo) religioso”? Insomma, posso credere al "mio Dio" ma non posso viverne l'espressione (tra cui la morale), che ne consegue? Questa separazione tra la fede e la vita, non è, per non dire altro... poco cattolica? (Provate ora a pensare alla nosta posizione con l'islam e vedrete come lo schema si ripete...)
Stiamo attenti al fatto che, nell’intento polemico di contestare certe affermazioni, rischiamo di contraddire non solo la storia (e non solo recente!), della Chiesa, ma di sposare in qualche modo la posizione di stampo lefreviano che proprio a questa pluralità di valori si oppone e che quindi senza accorgersene ha una visione protestante, perché disincarnata, del cristianesimo. Il pericolo, non tanto ipotetico, è ricalcare i tempi bui della “guerra di religione”, magari sotto la nuova forma di una “guerra sull’etica”: e così per non “ammazzare” un malato terminale, si “ammazzeranno” i sani! Il che sarebbe uno strano modo di voler "evangelizzare le genti"[*].
Il problema è serio e non di facile soluzione (né applicabile forse, in ogni situazione e a tutti), ma deve essere affrontato con quella serietà che il dramma delle persone in gioco ci domandano. Ci sarà bisogno, leggendo attentamente la sentenza, di ben altro che un articoletto, foss’anche dell’OR, per contestare quello che sembra una posizione altamente meditata e qualificata, fondata persino su valori e impostazioni che sono capisaldi filosofici e teologici della dottrina cattolica sul rispetto e sulla dignità della persona umana: altro che "vuoto di valori"! A meno che, non si prendano per "valori vuoti" anche quelli cristiani! Un esempio? Se non avete tempo di leggervi tutta la sentenza, almeno meditatene questo frammento:

Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale.
Ciò è conforme al principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente, concepisce l’intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa, e guarda al limite del «rispetto della persona umana» in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive.
Ed è altresì coerente con la nuova dimensione che ha assunto la salute, non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza.
Deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita.
Benché sia stato talora prospettato un obbligo per l’individuo di attivarsi a vantaggio della propria salute o un divieto di rifiutare trattamenti o di omettere comportamenti ritenuti vantaggiosi o addirittura necessari per il mantenimento o il ristabilimento di essa, il Collegio ritiene che la salute dell’individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva. Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c’è spazio – nel quadro
dell’“alleanza terapeutica” che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno – per una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c’è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico.

Mi sembrano affermazioni sufficienti a far sbiancare ogni nostra presunta, arrogante, dogmaticistica, certezza!
__________________________
[*] A questo proposito, si veda come noi cristiani ci comportiamo con le altre religioni che convivono in Occidente, e capiremmo come questa mentalità protestante stia dilagando nel sentire comune della società occidentale: "Che preghino nei loro templi e moschee, e sinagoghe, ma tra di noi, nella nostra società dalle salde radici cristiane, devono comportarsi secondo i parametri nella nostra fede!". Mi sembra che questa posizione, non sia semplicemente un problema "politico" ma esso contraddica, separando fede e vita, il fondamento stesso della fede cristiana a cominciare dall'Evento dell'Incarnazione, che fa della Storia il dirsi della Fede. Occorre inaugurare un ecumenismo autentico che coinvolga tutti gli ambiti della fede-vita e non solo i suoi aspetti dottrinali. Un cantiere che nessun soggetto sociale sembra, allo stato attuale delle cose, neanche lontanamente immaginarsi di dover affrontare!

Una nota halachica del Rav Riccardo Di Segni, Rabbino Capo di Roma

Qualcuna di noi conosce personalmente Eluana. Seguiamo così "più da vicino" il suo cammino.
Recentemente la Corte di Cassazione ha accolto l'ultimo degli otto ricorsi legali del padre e della madre di Eluana Englaro e ha ammesso, per la prima volta in Italia, la possibilità di lasciar morire i pazienti nelle sue stesse condizioni .
Ci sembra importante sentire anche la voce di chi "fa e ascolta" ciò che dice il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Riportiamo un intervento del Rav Riccardo Di Segni pubblicato sul sito: http://www.torah.it/

In relazione alla recente decisione della magistratura italiana e alle relative discussioni, si ritiene opportuno fornire questo chiarimento halakhico e legislativo.

"Tutti i decisori hanno stabilito che è proibito interrompere la somministrazione di cibo e liquidi a pazienti gravi allo scopo di affrettarne il decesso, e questo anche se si tratta solo di astenersi da atti (come non rinnovare infusioni ecc, ndt). Il motivo è che l'alimentazione è considerata una cosa naturale necessaria a tutti gli esseri umani e agli esseri viventi e chi toglie il cibo alle persone è considerato omicida; secondo i Maestri la morte per fame è la peggiore. Se il paziente rifiuta di mangiare, bisogna convincerlo e spiegargli l'importanza del cibo. Se ciò malgrado insiste nel rifiuto, c'è chi ha scritto che non bisogna costringerlo, se è adulto e cosciente; e c'è chi ha scritto che bisogna nutrirlo anche contro la sua volontà. In ogni caso a un malato che secondo la valutazione dei medici non ha speranza di vita e soffre si può interrompere il nutrimento per via endovenosa e nutrirlo per mezzo di un sondino nasogastrico o anche limitarsi a somministrare acqua e zuccheri endovena.

Pertanto è chiaro che bisogna dare da mangiare e bere al malato nei modi, nella misura e nella qualità tale che non si verifichino fenomeni negativi o danni a causa dell'alimentzione carente"

A. Steinberg, Entziklopedia hilkhatiti refuit, voce notè lamut

In una decisione del 5755 firmata dai Rabbini Eliaishiv, Auerbach, Wozner e Karelitz è stabilito che

"Non bisogna assolutamente affrettare la fine di un malato terminale, allo scopo di diminuirne le sofferenze, togliendogli nutrimento o terapie. Bisogna nutrire il malato terminale, quando necessario anche con sonda nasogastrica o gastrostomia"

Può essere interessante sapere che secondo la recente legge israeliana (2039 del 15.12.2005; si noti bene che è una legge laica, votata dal parlamento, non religiosa), un paziente cosciente può rifiutare i trattamenti, ma bisogna cercare di convincerlo ad accettarli; un paziente incosciente e sofferente di cui può esere dimostrata la volontà precedentemente espressa di rifiuto di trattamenti non va trattato ma deve essere comunque alimentato, a meno che la somministrazione di liquidi non provochi ulteriori sofferenze (cap.4, siman 3, art. 15-17).

sabato 20 ottobre 2007

Terre di mezzo

Ci sono città strane, che hanno subito lo scorrere del tempo iscrivendoselo dentro così a fondo che a passeggiarci dentro è come sfogliare un libro di storia.
In alto, di solito, c’è il borgo vecchio: il castello, la cattedrale, le strette vie selciate sulle quasi aprono i loro occhi le case di mille stili diversi, occhi smaniosi di mangiare ancora la vita che da duecento o più anni scorre inesorabile e distratta sotto le loro imposte. Più sotto, a valle, dove finivano un tempo i rifiuti portati dalla pioggia, è tutto uno sbarluccicare di tetti metallici, vetri e funghi artificiali alti sei, sette, otto piani, i nuovi formicai.
Se vi fermate a mezza costa e guardate le due città (che sono una solo nelle carte comunali), vi accorgereste quasi subito di quanto gli ultimi anni le abbiano duramente segnate. Il borgo storico lindo di un restauro artificiale che ridà lustro solo alle pietre senza riuscire a restituire la vitalità di cui sono affamati i suoi edifici (splendidi musei, nel migliore dei casi, e nulla più), la città nuova già sfiorita come un garofano sbocciato troppo presto ai primi caldi primaverili e che non ha saputo resistere alla calura estiva afflosciandosi, esangue, su se stesso.

Lo spettacolo lo trovo sempre molto istruttivo per noi abitanti delle terre di mezzo, fuggite con orrore dagli uni come dagli altri, ma che sono il confine sul quale siamo chiamati a combattere la nostra battaglia. Dove? Contro chi? Per fare cosa?.... le domande mi ronzano in testa, a tratti martellano, ma oggi voglio continuare a stare su questa panchina a guardarmi attorno e lasciarmi impregnare dai mondi che mi circondano (la calda sicurezza delle mura rosse del castello, la quiete silenziosa della chiesetta affacciata sul vicolo stretto, un cane che abbaia in un cortile; la forza del vetro-cemento, le auto che sfrecciano - puntine colorate - nella pianura, il fragore delle presse di quel capannone laggiù in fondo) aspettando che la sintesi mi nasca in cuore e renda ospitali le terre di mezzo che mi accolgono.

Fra il credere e il pregare: quale Dio?


… c’è un Dio che ha fatto uscire Abramo dalla sua terra, con grandi promesse, senza dirgli dove doveva andare… c’è un Dio che ha mandato Mosè a guidare il popolo nell’esodo dall’Egitto, ed è finito errando nel deserto senza più trovare l’uscita… un Dio che guarda se Mosè tiene le braccia alzate, per sconfiggere gli Amaleciti… C’è il Dio che fa costruire un Regno “eterno” a Davide, e poi abbandona Gerusalemme, la città della pace, alla distruzione e lascia deportare il suo popolo in esilio, senza più re, né sacerdote, né tempio, né legge, né profeta… Tutti costoro e l’immensa processione dei profeti e dei poveri di Jawhé hanno imparato a credere, vedendo barlumi di epifanie di Dio, e poi hanno imparato soprattutto a pregare per “consentire” …a ciò che non capivano. Gesù, in un paese senza speranza, ha rivissuto nella sua avventura umana la storia del suo popolo, credendo nella benevolenza paterna di Dio sia quando ascolta e si manifesta con forza e potenza, tra lo stupore e la simpatia di discepoli e delle folle che lo seguono… sia quando poi ha sofferto l’angoscia e la solitudine, profetizzando l’abbandono e il tradimento e la morte, alla fine del suo viaggio verso Gerusalemme - dove Dio stesso lo abbandonerà sulla croce.
Le Scritture, raccontano questo lungo cammino della fede e della preghiera dell’uomo fino a lui, “per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia…” l’ uomo di Dio completo” l’uomo che davvero ha creduto nel Padre e a lui e totalmente si è affidato, “con forti grida e lacrime”: Gesù! È infatti “per mezzo della fede in Gesù Cristo” che la chiesa primitiva, dopo lo scandalo della sua morte, ha imparato a comprendere le Scritture e trovarne il compimento. E così scoprire la dinamica tra credere e pregare: la luce e il sale della propria avventura ‘cristiana’ nella storia.
pregare sempre… : quale Dio!?
Luca, che fa della preghiera il respiro del suo Vangelo, ci ricorda l’esempio di Gesù e il suo insegnamento sulla preghiera, una ventina di volte (e poi i suoi discepoli impareranno bene dal Maestro, perché nel racconto degli Atti se ne parla una cinquantina di volte!). Questa pagina, della vedova ostinata e del giudice iniquo (come poi subito dopo del fariseo e del pubblicano), in poche righe ci presenta un’analisi sconvolgente e drammatica dell’avventura della preghiera… Il dramma della vedova è il dramma di ogni disperato, credente o no, di ogni povero, di ogni anima inascoltata… C’è nella lotta di questa vedova irriducibile la sorpresa di un antagonista inaspettato. Il personaggio che nella minuscola parabola tiene il posto di Dio, stavolta non è un padre misericordioso, un pastore affettuoso, una massaia volonterosa…. É: un giudice malvagio, “che non teme Dio e non ha rispetto per nessuno…, È questo “ente” terribile, cinico e sprezzante, che secondo Gesù, bisogna snidare dalle caverne del nostro cuore, ove abita da sempre, ma abusivamente, al posto del vero Dio, lì forgiato e mantenuto dalle paure e dalle angosce dei nostri antenti, dai nostri deliri frustrati, come un’immagine dilatata e deturpata del nostro io personale e collettivo, tradito e incattivito dalle speranze inappagate, e amareggiato dal troppo dolore inutile del mondo. Ecco perché ce lo raffiguriamo come un Moloch, indifferente alla preghiera più ostinata e insistente – impassibile perfino davanti alla sofferenza degli innocenti, che divora. Tutta la nostra lettura della storia è fuorviata ed equivocata da questo antagonista insensibile e ingiusto. Il Dio che vive dentro di noi e che tutti in qualche momento preghiamo (pur lamentando la sua indifferenza) è come questo giudice - senza religione e senza pietà… proprio quando ne avremmo diritto. Quanti gemiti, rifiuti e ribellioni gli uomini hanno lanciato nei millenni verso questo dio, disarmati di fronte a lui, che ha tutti i poteri, ma non gliene importa niente di noi! Siamo noi la vedova abbandonata senza appoggio di nessuno, senza un dio che davvero protegga ed esaudisca coloro che nessuno più accudisce, ai quali nulla più rimane fuorché una ostinazione invincibile … Oppure l’abbandono della partita, per ateismo o agnosticismo. … a meno di prendere l’altra strada, suggerita da Gesù : cambiare il volto di Dio!
pregare… un dio duro a morire
… questo Dio resiste a lungo a chi prega… Le volonterose ma fragili costruzioni delle nostre teodicee sulla bontà di Dio e le sue premure paterne per i piccoli che gridano a lui, si sfasciano e ci crollano addosso… Basta avere il coraggio di ammettere quello che abbiamo davanti agli occhi, e costatare che questo dio non ascolta affatto il povero che lo invoca, lascia morire di fame e di oppressione gli innocenti, e lascia fare il male a chiunque lo voglia… La bestemmia è già pronta nel cuore, anche ai più santi di noi… o almeno, se per un tale dio non esiste misericordia – bisogna trovare il coraggio di restituirgli dignitosamente il biglietto da visita, come l’Ivan di Dostojevski … non mi interessa più, non voglio aver più niente a che fare con lui! Gesù vuol portare il suo discepolo con sé, a questa barriera estrema oltre la quale inoltrarsi, per continuare a pregare… cioè per imparare a credere non in un dio fatto da noi, ‘manufatto’ per difendere i nostri interressi e progetti… ma nel Padre misterioso che solo lui ha conosciuto - e quelli ai quali vuole rivelarlo. Che fatica, togliere a questo dio la maiuscola abusiva!
pregare … senza incattivirsi
… si può tradurre anche “ senza scoraggiarsi”, o “deteriorarsi” – atteggiamenti, tutti, che indicano chiaramente il riscontro dell’esperienza che Gesù ha visto in tanta gente, che si è stancata di domandare ascolto a un sordo, si è demoralizzata e poi si è inacidita… Senza più un volto, nel cuore, a cui parlare, in cui sperare! Allora riemergono tutti i mostri di Dio che la paura e l’angoscia covano dentro di noi, e ci lacerano e ci incattiviscono…
Resistere nella preghiera, resistere a questa corrosione delle nostre impalcature religiose, senza indurire, ma temprandosi (Etty Hillesum)… non è per conseguire poi l’esaudimento miracoloso di qualche richiesta, che cambi a nostro vantaggio i destini del mondo, ma per vivere la profezia di Gesù, che ha promesso a chi lo implora senza stancarsi (senza incattivire), il suo Spirito, lo spirito che fa vivere Dio stesso (Lc 11,13).
La parabola dà per sicuro l’esaudimento, ma al futuro: non è una cosa scontata! la vedova mantiene un’ostinazione incrollabile, fino a spossare il giudice: questa vedova mi dà fastidio, fino alla fine, a rompermi la testa…Forse la sua invincibile preghiera rompe davvero la testa al dio che abbiamo fatto a nostra immagine e somiglianza, e lascia spazio a un altro Dio! di tutt’altra qualità. Sul suo biglietto da visita non c’è scritto l’onnipotenza o l’immensità o la giustizia vendicatrice… C’è solo la promessa dell’infinita longanimità (makrothumia) di un Dio che nella storia del mondo vuole attendere pazientemente i tempi lunghi della conversione dell’uomo, del crollo delle sue ambigue torri di babele, lo scolorirsi delle sue immagini di dio… per dare tempo al trasformarsi della nostra paura, fatica, resistenza, insofferenza… in travaglio doloroso di purificazione del dio introiettato… : fino a lasciare spazio alla comprensione della Parola di Gesù su questa vedova: non è l’ingiustizia sorda di Dio la causa dei nostri mali inascoltati… ma la pochezza e l’incostanza della nostra fede (18,8)!
il Signore tarda a venire solo per darci il tempo di convertirci
… la salvezza, non viene perché non è invocata! o è richiesta solo come soluzione di qualche problema occasionale! Non come desiderio di amare ed esser amati da un interlocutore… Finché il desiderio di Lui “persona” – antagonista / protagonista della vita!? – non ha conquistato e polarizzato il discepolo, (il “credere” non è diventato “pregare”), non c’è condizione interiore di esaudimento, se non “come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole”. È ancora religione interessata e contrattuale, utilitarista… La preghiera capace di ottenere tutto da Dio è quella che ci insegna Gesù: che ha cambiato il volto di Dio in “Padre nostro” – e prima si preoccupa anzitutto di lui, del suo nome, del suo regno della sua volontà… perché questa è la nostra salvezza, affidarsi a Lui: “…Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo. Il Signore non ritarda nell'adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma prolunga la sua pazienza (makrothumia) su voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi (2Pt 3,8s).
Dio è poco desiderato
Una preghiera che tende a consentire ai progetti di Dio ed esaudirlo in ciò che domanda è l’unica purificazione possibile della preghiera stessa, secondo le misure di Dio. Le misure di Dio sono il suo Spirito. Il quale trasforma il nostro desiderio nel desiderio di Dio - cioè, del suo essere, del suo bene! Una preghiera (un gemito!) non sovrapposta alle azioni che si fanno, o alternata agli atti consecutivi che scandiscono il quotidiano… ma una presenza accolta e custodita, che ci illumina, impregna, accudisce dal di dentro… come la “assenza” di una persona lontana ci tiene in tensione il cuore e ci fa vibrare per la sua “presenza”, mentre continuiamo a fare tutto quello che dobbiamo fare…. Il travaglio della fede è faticoso per noi, perché forse desideriamo tante cose per la nostra fame e sete… e poco, troppo poco, il vino, il pane e la parola che Gesù ci ha preparato per il nostro cammino, da condividere con i fratelli. Da questo nostra fragile passione, dipende se Gesù troverà ancora fede sulla terra!

venerdì 19 ottobre 2007

Il sostegno degli altri...

«Ma il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà ancora la fede sulla terra?».
Anche se può sembrare strano, mi sembra utile partire dalla fine… mi spiego… questa domanda sconsolata, posta da Luca sulla bocca di Gesù, chiude il brano di vangelo che la liturgia di questa domenica ci propone e quindi chiude anche la liturgia della parola stessa…
Io invece la utilizzo come esordio perché mi pare che le letture convergano tutte nel tentativo di articolarne una risposta…
Sono 3 gli elementi su cui il libro dell’Esodo, la Lettera di san Paolo a Timoteo e Luca 18,1-8 pongono la nostra attenzione:
1- il sostegno degli altri;
2- le Sacre Scritture;
3- la preghiera.
A Gesù e con Gesù risponderei che troverà ancora la fede sulla terra, se l’uomo saprà lasciarsi sostenere dai suoi fratelli e sorelle, lasciarsi scrivere la vita dalle Scritture e lasciarsi incontrare dal Tu di Dio.
Più precisamente…
La prima lettura (Es 17,8-13) ci presenta la situazione di Israele che scende in battaglia contro il nemico, in questo caso gli Amaleciti. Al di là delle questioni storiografiche a noi interessa la rilettura teologica della storia che gli autori di Esodo hanno prodotto: non si può (né ha senso) ricostruire quale sia la realtà storica che c’è dietro a questo bastone, che, alzato, ha il potere di fare di Israele il più forte, o alle parole che Dio direbbe a Mosè: «Scrivi questo in un libro perché non sia mai dimenticato; di' a Giosuè: Io voglio annientare gli Amaleciti; nessuno sulla terra si ricorderà più di loro!» (v. 14, che forse per custodire le orecchie sensibili del lettore di oggi, il liturgista omette…).
L’attenzione deve andare infatti al fatto che chi scrive questo brano crede nella potenza efficace di Dio nella storia, nella mediazione dell’uomo (Mosè in questo caso) e soprattutto – quello che interessa maggiormente noi oggi – chi scrive sembra credere (almeno in questo caso) nel fatto che né la potenza di Dio, né la mediazione mosaica avrebbero ottenuto “l’effetto sperato”, se Aronne e Cur non si fossero messi lì a tener su le braccia di Mosè.
Sinceramente immaginarsi la scena fa anche un po’ sorridere, ma immediatamente ci riporta alla nostra vita… Quante volte vorremmo che qualcuno tenesse su il nostro bastone… quante volte crediamo nella potenza efficace di Dio nelle battaglie della nostra vita, della Chiesa, del mondo. Quante volte ci sentiamo come Mosè, protagonisti della buona riuscita della battaglia (penso alle tante persone che si mettono nelle nostre mani… ai nostri poveri…)… Ma quante volte tutto è troppo pesante… e le braccia ci cadono…
E il rischio è che con le braccia e il bastone abbassato la battaglia che si perde è proprio quella della fede: «Ma il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà ancora la fede sulla terra?». Troverà ancora l'uomo disposto a dar credito al fatto che la vita evangelica che proviamo a vivere sia veramente vitale? Troverà chi crede ancora che ne valga la pena?
Per quanto mi riguarda, il Figlio dell’uomo mi troverà ancora con la fede solo se i miei fratelli si metteranno lì a tenermi su le braccia.
E in questa linea anche l’invito incalzante di Paolo a Timoteo mi sembra proprio la scena di un fratello che “tiene su le braccia” all’altro: «Carissimo, rimani saldo in quello che hai imparato e di cui sei convinto, sapendo da chi l’hai appreso e che fin dall’infanzia conosci le Sacre Scritture: queste possono istruirti per la salvezza».
Il Figlio dell’uomo troverà ancora la fede sulla terra se l’uomo resterà saldo in quello che ha imparato e di cui è convinto… Cosa sappiamo? Di che cosa siamo convinti? E perché? Sappiamo le Sacre Scritture, lo loro logica, il loro istruirci per la salvezza (che per Paolo è Gesù: «La salvezza si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù»). Ne siamo convinti perché sappiamo da chi abbiamo appreso questa verità: e ognuno ha il suo/i suoi volti che l’hanno convinto di quella che poi è diventata la verità della vita.
Paolo allora, con la sua passione, ci invita a custodire un secondo elemento fondamentale perché il Figlio dell’uomo trovi ancora la fede sulla terra: la saldezza nella Parola di Dio, essa «infatti è […] utile […] perché l’uomo di Dio sia completo». Completo, cioè pieno, compiuto… in una parola cristico!
E questa saldezza nella Parola, questo radicamento in essa, questo rimanervi avvinghiati, se serve, anche con le unghie, è talmente pregnante per Paolo che addirittura scongiura Timoteo «davanti a Dio e a Cristo Gesù» di annunciarla in ogni occasione!
E infine… il Vangelo…
Una delle chiavi di lettura di questo brano è la necessità della preghiera (necessità perché il Figlio dell’uomo trovi ancora la fede sulla terra…): «In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare».
La preghiera in Luca è un tema che spesso riaffiora (cfr in particolare Lc 11,1-13) e anche Gesù è presentato spesso mentre prega (cfr 3,21; 5,16; 6,12; 9,18ss; 22,45).
Senza addentrarmi troppo in questo tratto del volto lucano di Gesù, ciò che mi colpisce è la precisazione «senza stancarsi». Essa può avere anche il senso di senza scoraggiarsi, senza farsi cadere le braccia (appunto)…
In proposito mi ritornano alla mente le parole di Teresa di GB: «Voi però, o Signore, conoscete la mia debolezza: ogni mattino prendo la risoluzione di praticare l'umiltà e alla sera riconosco che ho commesso ancora ripetuti errori di orgoglio. A tale vista sono tentata di scoraggiamento; ma capisco, anche lo scoraggiamento è effetto d’orgoglio. Voglio quindi, mio Dio, fondare la mia speranza su voi solo».
Teresina ha capito che l’unico modo per perseverare senza scoraggiarsi (l’unico modo perché il Figlio dell’uomo trovi ancora la fede sulla terra) è non fondarsi su se stessi, sulle proprie opere, sulla propria volontà… perché prima o poi le braccia cadono… ma fondarsi su Dio (sulla sua Parola, sulla relazione con Lui, che poi è la preghiera) intrecciati inestricabilmente ai fratelli.

mercoledì 17 ottobre 2007

NUOTARE

Nuotare è sempre una notevole sfida entrando in acque sconosciute e da percorrere per la prima volta. Ci si pone in contrasto o in accoglienza con le correnti che possono portare alla deriva, con la forza della marea che monta o che decresce? L’impeto del vento impone una scelta, nuoto perché nuoto e quindi mi lascio portare o cullare oppure ho una meta precisa e devo lottare e giungere alla mia meta?
La persona, il suo corpo con tutti i muscoli e i nervi, con tutto il sistema nervoso all’erta, si gioca del tutto e osa, sia per il piacere di una lunga nuotata, sia per salvarsi la pelle se necessario.
Comunque, misurarsi, conoscere e sperimentare, è ovvio ed l’unica strada per non dover rimanere seduti sulla battigia, inerti e, magari, delusi.
Questa descrizione potrebbe risultare una sorta di metafora della nostra vita così attratta e, simultaneamente respinta, da ideali, desideri, sconfitte e vittorie, e mete da voler raggiungere.
Il piano concreto è non solo visibilissimo, ma addirittura svincolato da dimostrazioni: non mi tuffo e nuoto in acque che non mi consentono, misurato lo stipendio mensile, di vivere ogni giorno. Ovvero un’offerta di lavoro può rispondere ad ogni mio desiderio e capacità ma se la prestazione rimane gratuita, io come vivo? Cioè come declino il mio quotidiano se non posso contare su di un introito sicuro? Oppure, voglio avere un tetto sopra la testa, mia e della mia famiglia, come fare? Ancora una volta la misura del concreto si impone, correnti, maree e venti: tutto da tenere in conto.
Perché allora quando accogliamo il Dio che fa irruzione della nostra vita serpeggia un disagio magari inespresso? Perché ci sfiora l’angoscia di abbandonare il terreno del concreto per avventurarsi in quello dell’inesistente, dell’irreale. Insomma, perché per noi Dio, e la relazione con Lui, non sono il concreto più concreto?
Statistiche, indagini, progetti e programmi invadono il quotidiano, è davvero, talora, imbarazzante, sapersi orientare ed evitare la reazione, adolescenziale, di cestinare tutto: trash, Ok.
Uno sguardo più profondo, più concreto oso affermare, ci farebbe individuare e percepire le grandi correnti della storia dei popoli, le maree che ci lambiscono e si ritirano per poi ritornare con più energia e vigoria, i venti che soffiano portando in avanti e quelli invece che fanno perire e colare a picco.
Sulla scena politica odierna, così lacerata e lacerante, la marea inarrestabile delle tuniche arancione e delle ciotole capovolte dei monaci buddisti birmani, è di una forza dirompente, incalcolabile e senza ritorno. Dall’interno di una vita che rifiuta i parametri “concreti”, economici, di profitto e di carriera e si affida, giunge un appello che si rovescia sull’esterno per poi ricondurre, da vento impetuoso, all’interno ancora una volta: che senso ha il vivere concreto delle persone se manca la libertà?
Il richiamo dello Spirito è netto, tangibile.
Non però solo la situazione limite dell’oppressione richiama una corrente inattesa, nuova, è il quotidiano, nella sua ripetitività, che deve essere nuovamente scoperto e affrontato.
Dire relazione con Dio, significa dire preghiera, ascolto e colloquio, attesa e risposta. Certezza che l’interlocutore è là ad attenderti, ad attendere proprio solo te e a proporti la chiave della vita. Può insegnarti a nuotare sul filo di una corrente che, anche se non pare, muove le forze della storia umana e di ogni storia.
Significa non essere gettati, improvvisamente, senza scopo e con danno proprio, nel tempo e nella storia (chi mai lo ha chiesto?), come postula qualche filosofia contemporanea, ma ritrovarsi dono ricevuto, dall’amore dei propri genitori (perché credo ancora nell’amore del padre e della madre e non solo nell’alchimia delle provette) e dalla bontà di un Dio che ha pensato a me, così come sono e come vorrei essere.
Il tuffo allora non è pericoloso e attanagliante, è un immergersi sorretti da braccia potenti che ti immettono, se tu lo vuoi, nella grande corrente degli oranti, di tutti coloro cioè che vivono il quotidiano più concreto possibile, quello della relazione con Lui, il concreto per eccellenza e possono sospingere, alimentare, corroborare ogni concreto visibile e tangibile.
Ognuno di noi può esserlo con una semplice modalità: avvertirLo presente e considerarLo l’Amico dell’uomo e della donna e l’Amico dell’umanità intera.
Le bracciate allora non sono affannose e senza ritmo, puro battere le onde senza avanzare, schiuma che travolge, ma ritmo sicuro che fende l’acqua, la smuove e dona impulso a procedere.
Vorrei dire: rovescio la mia ciotola ma non ne sono capace, è quasi ora del pasto (molto concreto). Voglio però dire: la ciotola è scagliata lontano ed io a mani nude e vuote attendo che la forza di Lui mi trapassi e si getti su tutto e tutti, come forza dirompente, come incitamento reale. Così nuoto in quel concreto che è il grande mare dell’amore Trinitario e la storia si riplasma. Possiamo farlo tutti e sempre.

Cristiana Dobner

Rivoluzionario e Sognatore, l’uomo tra sufficienza e necessità

Rivoluzionario e sognatore sono due termini che nel sentire comune di tutti noi hanno significati ben delineati e che possiamo sintetizzare con facilità. Il rivoluzionario è, per lo più, ritenuto colui che con una forte carica ideologica ha un approccio pragmatico con la realtà, tendenzialmente è portato a prendere di petto le situazioni. Il sognatore invece è piuttosto alieno ad affrontare i problemi attraverso l’azione, preferisce la fuga o l’alienazione; spesso vive in un mondo parallelo che si è costruito per proteggersi.

Si può tuttavia, tentare una diversa considerazione di questi due tipi umani, analizzandoli nella dialettica che generano ponendoli uno di fronte all’altro, e singolarmente di fronte al reale.
Così al di là del loro etimo, e del loro significato storico, tentiamo una miscelazione e reinterpretazione dei due nella loro dialettica storica alla luce, poi, del Vangelo.
Siamo tuttavia certi che l’uomo in quanto tale, cosciente o meno di ciò, ha in sé entrambe le possibilità, ognuno con diverse modulazioni.

Il rivoluzionario è colui che scopre prima, contesta poi, le ingiustizie valendosi, se necessario, dell’azione violenta. È colui che sottopone a una critica corrosiva tutto i reale, a cui lui stesso scopre d’appartenere, impiegando la ragione. Così facendo trova una forte dissonanza tra le realizzazioni storiche umane e l’ideale-utopia che porta in sé. Scopre, qualcuno direbbe, l’Assurdo: l’inconciliabilità tra desiderio e realtà storica. Il rivoluzionario è uomo che non tollera e non sopporta ma agisce-combatte-cambia. Il rivoluzionario però non può sottrarre sé stesso dall’analisi critica. Giunge così al punto di crisi-giudizio, in cui fa la scoperta di essere esso stesso soggetto sottoposto alla grande possibilità negativa, emersa inesorabilmente nel lucido percorso critico rivoluzionario.
Teologicamente: “appare il grande No di Dio: la sua totale estraneità a questo mondo, che pone il rivoluzionario in una condizione di crisi”. Questa, come conseguenza dell’analisi critica, colpisce al cuore il metodo usato dal rivoluzionario. Il metodo infatti per essere giustificato necessita di solide fondamenta. E come può il rivoluzionario, che scopre di sottostare e far parte esso stesso della ingiusta realtà, creare dopo la lotta e anche durante, un ordinamento giusto? Cadrà nell’insuperabile sconfitta che si proponeva di vincere! Renderà cioè, se agirà, “male per male”.
Il rivoluzionario non accetta, infatti, la realtà storica nel suo divenire, nel suo progresso lento e continuo poiché storico. Il rivoluzionario quindi sarà necessario, ma non potrà essere considerato l’uomo nel suo aspetto più proprio. Bisogna puntualizzare che comunque questa posizione del rivoluzionario è assolutamente maggiormente autentica e preferibile rispetto a quella del reazionario. In quanto sotto la grande possibilità positiva (evangelica, e che protesta!), è l’Amore a giudicare il reazionario definitivamente nel torto, nonostante il torto in cui si trova il rivoluzionario se agisce. Poiché amandoci gli uni gli altri secondo il comandamento nuovo di Gesù, non possiamo voler mantenere l’ordine esistente come tale. Noi attuiamo il comandamento dell’Amore e così il “Nuovo abbatte il vecchio”… “vi è stato detto ma io vi dico…”.
La possibilità nuova che si apre è quella che qualcuno ha chiamato “l’in-azione”. “Che altro posso fare di fronte al “nemico” dopo la riflessione critica, se non ritornare da ogni fare originario, da ogni risposta alla domanda, da ogni azione alla presupposizione?!... Deo soli gloria…”

Il sognatore dal canto suo mescola e combina in sé le potenzialità e le caratteristiche del rivoluzionario e della realtà, secondo una creatività propria, cogliendone così gli aspetti d’ulteriorità, di superamento, rimanendo disinteressato a una realizzazione storica di ciò che sogna. È semplicemente stupito di poter e di aver sognato una ulteriorità della realtà. Il sognatore è colui che davvero è affascinato e nutrito dall’Ulteriorità che lo interroga nella realtà, che produce in esso domande. Così il sognatore avrà il compito di convertire il rivoluzionario a una precedenza dell’Ulteriorità del sogno, sopra e prima del cambiamento storico. D’altro canto il rivoluzionario avrà fornito quella previa e necessaria critica rivoluzionaria che permette un ancoraggio del sognatore alla realtà e che rivela la crisi in cui versano tutte le strutture e i tentativi, religioni e pensieri umani. Sinteticamente potremmo dire che il sognatore si apre alla possibilità che un altro agisca attraverso di lui. Lasciando, cioè, che accada ciò che in relazione con la realtà ha sognato e che con la critica rivoluzionaria ha scoperto di non possedere. È la profezia dell’Avvento di una “impossibile possibilità che accada”, proprio lì dove ci si trova senza alcun sufficiente ostacolo che possa arrestarlo, il Regno del Padre nella storia dell’uomo… Freud direbbe: “che è un Dio, questo, che alla lunga ha la meglio, vince”… e noi aggiungiamo perché vuole tutti e patisce per tutti il nostro lasciarci liberi.

martedì 16 ottobre 2007

Ma il pettegolo è sempre un bugiardo?

Uno studio tedesco conferma che le chiacchiere hanno più effetto di ciò che vediamo con i nostri occhi. Centoventisei studenti-cavia dimostrano il potere delle dicerie nella vita d’ogni giorno
«Il pettegolezzo è una verità: due su tre credono al gossip»
Cantava De Andrè: «La maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo». L’aveva già capito il cantautore genovese che il pettegolezzo è più potente della verità. I ricercatori del Max Planck Institute lo hanno dimostrato: usando studenti-cavia, psicologi tedeschi hanno confermato che «il gossip ha più effetto di ciò che abbiamo visto con i nostri occhi». Gli studiosi hanno coinvolto 126 studenti suddivisi in gruppi di nove ragazzi ciascuno, bersagliandoli di pettegolezzi sui giovani degli altri gruppi ed è emerso che le «cavie» tendevano sempre a credere di più alle maldicenze o alle lodi intessute da altri, piuttosto che a ciò che avevano potuto sperimentare di persona o che gia sapevano sul conto delle inconsapevoli vittime. E non è tutto. Secondo la ricerca, i gossip non influenzerebbero solo i giudizi sulle star dello spettacolo, ma inducono anche opinioni e comportamenti della vita comune. «Una recente indagine - spiega Ralf Sommerfeld dell’istituto di Plön in Germania che ha condotto la ricerca presto pubblicata sulla rivista dell’Accademia Americana delle Scienze PNAS - ha evidenziato per esempio che due persone su tre credono il gossip una fonte per apprendere nuove cose: non importa se i pettegolezzi alla fine siano veri o meno. Diventano la realtà».
Gli studiosi hanno seguito dall’inizio alla fine il processo di gestazione delle chiacchiere degli studenti e il percorso di trasferimento di queste chiacchiere e i comportamenti conseguenti del fruitore del pettegolezzo. In pratica, ad ogni studente è stata passata una chiacchiera, buona o maligna, su un altro studente e poi gli è stato chiesto se avrebbe avuto voglia o meno di lavorare con la persona oggetto del pettegolezzo. Non solo, com’era ovvio aspettarsi, i ragazzi hanno tendenzialmente rifiutato di far coppia con coloro sui quali circolavano voci negativi, ma è emerso anche che la chiacchiera ha più effetto dell’informazione diretta sulla persona. Il 44% dei partecipanti infatti ha cambiato la propria opinione su una persona sotto l’influenza del gossip, anche quando le chiacchiere contraddicevano ciò che avevano visto di persona. (15 ottobre 2007)
fin qui "la Repubblica.it"...


Ma guarda sti’ scienziati… scoprono l’acqua calda! Ma c’era proprio bisogno di “caviare” centoventisei poveri studentelli? Sarebbe bastato fare una visitina ai nostri conventi e monasteri... Così... tra una battuta e l’altra, sgranocchiando un buon dolcetto e sorseggiando una fresca bibita o un buon caffé, tac! la parola malevola si sarebbe insinuata, quasi distrattamente, sul malcapitato (o malcapitata) di turno!

Ma sì, dai... dopotutto, scagli la prima pietra, chi non si è mai lasciato andare almeno una volta a un liberante, malevolo, godereccio, pettegolezzo! L'importante è non esagerare e... non crederci troppo, altrimenti... si trasforma in calunnia! ;-)

sabato 13 ottobre 2007

Un "frammento" dai nostri Esercizi Spirituali con P. Francesco Rossi de Gasperis


"…l’ultima realtà è soltanto il Signore Gesù. E questa signoria è così vera che io posso accettare tutti i superiori possibili e immaginabili, perché so che nessuno di loro è mio superiore: tutti sono segno e sacramento dell’Unico Re.

Servire Dio è regnare! Ma capire - d’altra parte -, come tutta la storia d’Israele ci insegna, che la regalità di questo Re ci chiede anche di vivere nella storia e quindi di obbedire a questi segni. (…)

Io posso sottomettermi a tutte le obbedienze in vista del Re e vivere nella Chiesa, nella famiglia di Dio, con una totale libertà perché la mia coscienza guarda LUI, non altri. Anzi – direi - che questa mia dipendenza dal Re, mi rende accogliente verso tutte le cose che incontro, verso tutte le cose più piccole e più, qualche volta, anche meschine, con il sorriso di chi sa che, oltre a tutte le apparenze, c’è LUI e che LUI non inganna nessuno.

…. Il Signore ha in mano la storia, il tempo, le cose che ci sono e quelle che ci saranno, quelle che stanno passando e quelle che passeranno.

..vivere nella gioia, nella pace, nella consegna di me a questo Re che è il Re dei re e il Signore dei signori e che mi insegna proprio che la regalità l’ha ottenuta attraverso la Croce. E dunque, non c’è nessuna croce che mi si possa presentare che non possa essere una via, una strada, per la libertà. Non c’è nessuna profondità – diciamo -, in cui io possa cadere, in cui non è già passato LUI.

Questo mi sembra – vedete -, il senso della Discesa di Gesù agli Inferi, che è un articolo della fede che forse non sempre capiamo bene che cosa vuol dire. Dire che “Gesù è disceso agli inferi”, significa che ha riempito l’abisso, che è passato dove nessuno di noi è più capace di passare perché già c’è passato LUI, che ha conosciuto la morte – soltanto Gesù, direi, è davvero morto, perché soltanto Gesù ha conosciuto una morte che nessuno ha redento per LUI; la morte di Gesù è incomprensibile per noi perché è morto di una morte non redenta e ha redento LUI la nostra morte -.

E dunque non c’è nessuna morte, nessuna croce in fondo, in cui LUI non sia già passato. E questo fa in modo che ogni croce che mi si presenta diventa un luogo di sequela di LUI che è andato avanti a me. E allora non c’è più d’aver paura della morte, non c’è più d’aver paura della croce, ma - come dicevo - anzi, ogni croce, anche la più nera può diventare la via della liberazione. Questo è tutto quello che hanno capito i martiri nella vita della Chiesa.

Sono alcuni pensieri da nutrire davanti alla Croce del Signore, sapendo che in questo modo LUI ha fatto giustizia, ma una giustizia del mondo che è anche la liberazione del mondo.

Cerchiamo, chiediamo, di vedere la concretezza di questo proprio nelle cose anche più piccole della nostra vita.

Dicevo che “Gesù resta sempre il bambino del Padre, che gioca davanti al Padre anche sulla Croce”: ci insegna anche LUI a giocare con le nostre croci.

Certe volte un modo di darci importanza è quello di dire, insomma, che stiamo soffrendo terribilmente, nella passione…relativizziamo: non c’è nessuna croce con cui non si possa giocare, proprio perché il Signore ha preso la Croce come suo trono.

E’ dunque con l’umorismo, se volete, di questo fatto, che, come dice il prefazio della Croce, colui che credeva di vincere con l’albero dall’albero è stato sconfitto – è stato sconfitto per la forza della Risurrezione che ha segnato l’ultima parola sulla morte, e quest’ultima parola è Vita, Vita che non muore più -.

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